Vino e gazzosa
Era il 1992 avevo nove anni erano i venticinque anni di matrimonio di zio Mario. Dopo il pranzo a Sa Cardiga i grandi erano mezzo svenuti sui divani scamosciati dell’ingresso, zio Mario la bavetta che gli usciva dalla bocca spalancata alle mosche e zia Lucia che lo guardava con una faccia che si vedeva: era preoccupata per i venticinque anni che sarebbero venuti.
Sui tavoli pezzi di melone bianco galleggiavano sui resti dei gamberoni succhiati forte da tutti con la tecnica di nonno. Se non fai rumore non esce niente, diceva nonno aspirando senza i denti davanti, che secondo me era quello il segreto.
Era il ‘92 avevo nove anni e i grandi erano svenuti. Dalle casse del dj era partita la Lambada scatenando le anche dei pochi superstiti. Sui tavoli fondini di vino bianco ormai caldo, grappe lasciate a metà da zie già molto allegre, innumerevoli mirti con dentro briciole di dolci di pasta di mandorle.
Mauretto finisce di frugarsi il naso e mi fa Marrano, marranoche li assaggiamo tutti, sono due gocce cosa vuoi che ci fanno?
Era la prima volta che toccavo dell’alcol e lo facevo per sfida a Mauro mio cugino esploratore di topi di naso. Due gocce di molti mirti con dentro briciole di dolci di pasta di mandorle, due gocce di grappe lasciate a metà da zie già molto allegre e innumerevoli fondini caldi di vino bianco.
Alla guardia medica di Capoterra, dopo una flebo di Plasil, dopo aver rovesciato anche i succhi gastrici, io e Mauretto avevamo giurato – Te lo giuro su Claudio Ranieri, aveva detto Mauro trivellandosi il naso – che non avremmo toccato un goccio di niente mai più.
Ero un bambino strano era il ‘92 e a scuola maestra Silvia, quella di Storia e Educazione civica, aveva fatto una battutina sui fondi neri dei partiti in Svizzera, una di quelle battutine bambeche tutti facevano in quegli anni di fine impero, una battutina che nessuno a scuola aveva capito. Nessuno tranne me, che avevo nove anni ero un bambino strano e avevo detto che anche i miei genitori avevano i soldi in Svizzera, e anche tu maestra Silvia, avevo detto, come tutti gli italiani che pagano le tasse.
Maestra Silvia mi aveva guardato come si fa con certi tipi di scimmia che le guardi ed è impressionante oh, incredibile come assomigliano a un essere umano.
Ero un bambino strano ricordo che era primavera e da settimane tornavo a casa di corsa dopo la scuola per avere informazioni di prima mano. Salutavo al volo signora Efisia, la custode delle elementari di via Zèffiro che ci aspettava all’uscita per farsi spettinare dalle nostre grida di bambini finalmente liberi – e per assicurarsi che nessuno, specie Mauretto, attentasse al suo albero di more – salutavo signora Efisia e tagliavo di corsa per la piazzetta, giravo l’angolo e sfrecciavo davanti al bar di zio Mario, O Carla Fracci!, gridava sempre Paoletto sa scimmiaappeso al bancone come un macaco, una mezza birra in mano al posto della banana, O Carla Fracci!, gridava perché da sempre corro in punta di piedi. Superavo il bar, schivavo le cacche di cane sul marciapiede e saltavo sull’albero di pere che sporgeva dal cortile della palazzina di mamma, un ramo robusto e nodoso era la mia scaletta per scavalcare la recinzione verde in ferro. Sul pianerottolo davo cinque colpi di campanello ritmati a comporre senza indugio un For-za-Ca-glia-ri!, volavo in cucina senza salutare, alzavo a palla Lilli Gruber e chiedevo a mamma:
Lo hanno fatto il governo?
Andreotti si era dimesso in aprile e avevo scommesso con Mauro cento figurine che entro giugno avremmo avuto il governo nuovo. Mauro aveva tolto l’escavatore dal tunnel, aveva esaminato il suo prodotto, lo aveva mollemente appoggiato sullo schienale della panchina in piazzetta, si era tolto via il viscidume passandosi il dito sul dietro dei jeans, mi aveva stretto la mano e aveva detto:
Ci sto.
Bene, avevo detto.
Perfetto, aveva fatto lui, ma chi cazzo è Andreotti?, aveva aggiunto Mauro esperto ladro di more dall’albero di Efisia.
Poi mi ricordo era il 25 maggio, compleanno di nonno. Eravamo a casa sua dall’ora di pranzo e i grandi erano svenuti alla loro maniera. Sul tavolo teste succhiate e nessun bicchiere di niente, che nonna aveva sparecchiato prima che Mauretto potesse dire Marrano.
La tv accesa sull’uno. Era il 25 maggio e ancora non c’era il nuovo governo.
È un casino, avevo detto a Mauro, un casino.
Il casino era che Cossiga si era dimesso e non c’era nessuno al Quirinale, che Andreotti si era dimesso e voleva andarci lui al Quirinale. E sinché non c’è il capo dello Stato, provavo a spiegare a Mauro che dalle orecchie gli usciva un soffio caldo di scirocco, governo non-se-ne-fa. Un casino, avevo detto a mio cugino di nove anni massacratore di lucertole.
Certo, aveva annuito lui fingendo di saperla lunga, ma chi cazzo è Cossiga?, aveva aggiunto.
Era il pomeriggio di una giornata calda ma non bollente, tiepida e celeste. Nonna stava servendo gli amaretti e a un certo punto se l’era presa con nonno:
Eccolo qui, aveva detto, eccolo qui, sempre il più grande si deve prendere lui.
Perché tu quale avresti preso?, aveva detto nonno.
Il più piccolo, per buona creanza.
E io quale ti ho lasciato?
Nonna aveva sollevato il braccio con il gomito appena piegato e il palmo della mano rivolto di fronte a sé, come a indicare nonno, poi lo aveva lasciato andare lungo il fianco, come se le fosse caduto. Era andata in cucina senza aggiungere altro, si era messa i guanti gialli, aveva bogatole zie dal lavello che I piatti me li lavo come dico io, aveva detto impugnando lo Spic & Span gel concentrato delicato sulle mani.
Nonno ne aveva approfittato per scorreggiare fortissimo. Zio Mario si era svegliato di soprassalto per il rumore.
Su cunn’e Mao Tse Tung, aveva esclamato zio Mario con voce da sonno.
Tutti avevano riso e nonno aveva detto che ci voleva una passata di ’43, le bombe ci volevano, Cagliari distrutta dal fascismo e dagli aerei alleati, quelli sì erano rumori da cagarsi addosso.
Tutte scuse, aveva detto zio Mario, ti sei troddiatoe basta.
Sull’uno c’era lo spoglio in diretta Tv. Andreotti era in alto mare trombato per la prima volta dopo 60 anni. Bruno Vespa aveva dato la linea a Montecitorio.
Si apre il sedicesimo scrutinio, aveva detto Stefano Rodotà che presiedeva l’assemblea delle camere riunite.
Scalfaro, Scalfaro, Scalfaro, diceva Rodotà dopo l’apertura delle urne. Cossiga, diceva ogni tanto. E io ci stavo rimanendo male perché Cossiga era sardo e tifavo per lui e lo avevo detto anche a Mauro che adesso aveva fatto mente locale, aveva prima strizzato gli occhi e poi li aveva spalancati per dire:
Certo, Cossiga, quello della scritta!
Quale scritta?, avevo chiesto.
Quella fuori dallo stadio: COSSIGA VENDI NAPOLI ALL’IRAQ!
Più o meno, avevo detto a Mauro mio cugino cintura nera di pisciate dal balcone di nonna dopo pranzo di nascosto d’estate.
E insomma Cossiga aveva preso 63 voti, tutto sommato niente male per un uscente. Solo che erano tutti voti del Movimento Sociale. Insomma io sapevo tutto, ma non capivo un cazzo, mi aveva fatto notare nonno.
Era il 25 maggio e dopo la proclamazione di Scalfaro siamo scesi a giocare in piazzetta io e Mauretto.
In piazzetta c’era Raffaele, scuccatosenza un pelo in testa e gobbo, con la sigaretta accesa a penzoloni in mezzo alle labbra. Raffaele era uno che girava senza sosta per il quartiere, veniva ogni sera a vederci giocare a pallone. Sessant’anni portati male o settanta così così, piccolo di statura, la pelata nascosta da un cappellino da pescatore. Canottiera bianca e bermuda ascellari. In mano sempre una busta di plastica, blu. Dentro c’erano dei brick di Tavernello quasi sempre rosso.
Raffaele diceva cose di grande buon senso quando guardava le nostre partite. Quando c’è vento la palla a terra!, gridava nei giorni di maestrale, oppure Dalla di prima!, suggeriva tra i denti quando gli avversari aumentavano la pressione. Il problema era che gridava queste cose per tutto il quartiere anche quando nessuno stava giocando. Un sorso di Tavernello e un’imprecazione, che le squadre dovevano avere equilibrio, diceva bussando ai finestrini delle macchine ferme al semaforo in via S’Arrulloni.
Salutate la capolista, aveva detto indicandosi in mezzo alle gambe a quel prete di Genova che era appena arrivato in quartiere, glielo aveva detto dopo un Cagliari-Sampdoria finito tre a due.
Si dice fosse arrivato così Raffaele, dopo una brutta storia, molti anni fa, dicono. Dicono fosse finito in mezzo alla strada in seguito alla fuga della moglie con un avvocato alto e bruno. Si dice gli abbiano fatto firmare delle carte e in un colpo solo ha perso la casa, la moglie e il cane. Dicono che i primi mesi girasse per il quartiere con un cartello:
SONO POVERO – c’era scritto – HO PERSO LA CASA, LA MOGLIE E IL CANE. CERCASI CANE.
Una volta lo abbiamo portato al bar di zio Mario dopo una partita.
Raffaele cosa ti bevi?, gli aveva chiesto Mauretto.
Un succo di frutta.
Che gusto?
Ichnusa.
Era il ’92 avevo nove anni e avevo giurato su Claudio Ranieri che non avrei mai più bevuto un goccio di niente. Erano gli anni dell’Italia ladrona, gli anni che stava crollando tutto, anni di scandali e anni di bombe, anni che nonno disperato diceva che ci voleva la galera, che Di Pietro doveva arrestarli tutti, diceva. Io mi fidavo perché nonno era il più grande spolveratore al mondo di teste di gambero e perché in fondo un po’ era vero, che sapevo tutto ma non capivo un cazzo.
Il nuovo governo aveva giurato il 28 giugno, avevo vinto cento figurine, avevo attaccato Francescoli sulla porta dell’armadio in cameretta.
Persona seria Giuliano Amato, aveva detto nonno. Che avrebbe messo a posto i conti aveva detto, e tra due anni andiamo a votare e al governo arriva la Sinistra a mettere un po’ di regole, in questo cazzo di Paese. Di nonno mi fidavo, vecchio scorreggione senza denti, e quella sera era passato poco più di un mese e Mauretto non c’era e avevo infranto il giuramento.
Vino e gazzosa, aveva detto nonno, brindiamo.
A cosa?, avevo chiesto io.
Al ’94, alla Sinistra al governo!, aveva detto nonno alzando il bicchiere.
Lo avevo alzato anch’io, un ex bicchiere della Nutella con sopra Gatto Silvestro, avevo guardato nonno negli occhi azzurrissimi e belli, avevo sorriso e fatto cin, coi vetri che si toccavano appena.
Al Cagliari in Europa, avevo detto.
Il racconto è anche pubblicato sulla rivista Effe, periodico di altre narratività, n. 8.
Immagine: Momsie

Ex centrocampista della Frassinetti, lavora come giornalista occupandosi della comunicazione per i festival di libri, cinema, musica e teatro della Sardegna. Scrive racconti per quotidiani e riviste (Corriere della Sera, Rivista 11, Effe, Unione Sarda, Il Risveglio della Sardegna), ne legge alcuni ad alta voce durante le serate del collettivo Scrittori da palco. Tifoso del Cagliari, gioca male a calcetto: il lunedì.
10 Marzo 2020 @ 01:18
Caro Nicola Muscas, tu sei bravo. Hai scritto un racconto eccellente