Sweet violets
Si ricorda il profumo degli aghi di pino. Le gite allo zoo con la gabbia dei leoni sempre vuota e il negozio di dolciumi e la coca cola. Il sapore della menta, le canzoni intonate di un tempo lontano, e tutto si trasforma in un viaggio nel passato narrato con eleganza e nostalgia.
Ricordo il profumo fresco degli aghi di pino, il pino bianco, formavano sul suolo uno strato spesso color terra di Siena e odoroso, il bosco accogliente manteneva nell’aria la promessa di corone e ghirlande e di neve. I gigli tigrati si inchinavano a noi per origliare segreti, piccoli e allegri come le automobiline dai colori caramellosi, con le ruote incrostate di sporco, noi lo grattavamo via provocando bombe di polvere che ci scoppiettavano tra le dita. Ripuliti dal fango, i giocattoli di nostro fratello rimanevano parcheggiati a sonnecchiare sotto vecchi mattoni forati, vecchi tubi, rametti secchi e piatti di latta, i vecchi piatti ammaccati e graffiati, con disegni di olandesine e anatroccoli sbiaditi dall’acqua degli stagni, nei quali andavamo a pescare i pesci sole.
Ricordo il vecchio mazzo di carte, ce n’erano solo quarantasette, come giocavamo a battaglia e a slap-jack e schiaffeggiavamo quelle carte, si sentiva la levigatezza della loro superficie patinata. Nessuno ci aveva mai insegnato a giocare alla vecchia, la vecchia carta rovinata, la donna vecchia e rugosa con quel sorriso digrignante come avesse bevuto aceto.
Ricordo gli abiti fatti a mano, la passamaneria a serpentina sui bordi e sui colletti, parevano decorati di glassa, li indossavamo quando andavamo allo zoo, ricordo le chiavi a forma di elefante che servivano per azionare le scatole dei libri parlanti. Lo zoo d’estate, con i topolini esibiti in casupole a forma di spicchi di formaggio, i serpenti e le salamandre dentro quelle a forma di zucca, le sagome di legno ruvido erano il gergo dell’infanzia. Era il posto dei bastoncini di zucchero, per noi il periodo dei giocattoli fatti ad ascia di gomma con i dolciumi dentro e dei panini con la mortadella e la coca-cola che ci tintinnava in testa. La gabbia del leone era vuota ma ci piaceeva la sua scatola di metallo inclinata che ne conservava la storia: “Il leone maestoso…” e così via, “…il ruggito più potente…” e allora arrivava una specie di ruggito. Ascoltavamo con tutta la nostra attenzione. Sentivamo la stessa storia ogni volta che giravamo la proboscide dell’elefante di plastica rossa dentro la toppa.
Ricordo i denti, le grandi accette che avevamo in quinta elementare, che fendevano in un colpo le caramelle intere alla menta, quelle impilate in rotolini di carta stagnola, con macchioline colorate che le facevano sembrare di pietra focaia. Davanti allo specchio dei bagni ci mettevamo in punta di piedi, con le ginocchia appoggiate al lavandino, provavamo a serrare i denti tenendo la bocca aperta. Magici uccellini. Ricordo che le mentine emanavano scintille. Ricordo come si facevano le scintille. Ricordo che cantavamo canzonette.
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I remember the warm scent of pine needles, white pine, sienna golden and fragrant thick on the ground, that warm wood held in its air the promise of wreaths and garlands and snow. The tiger lilies leant toward us, listened for secrets small and cheerful as the candy-colored hotwheels, tires caked with dirt that we flicked out, rock-sharp dust bombs popping hard on our thumbs. No longer mudbound, our brother’s toys parked to nap under old cinder blocks, old pipes, old twigs, tin plates, those old ones bent and scratched with little Dutch girls and ducklings fading into ponds where we fished for sunnies.
I remember the old deck of cards, there were only forty-seven, how we played war and slap-jacked those cards, their clay-coated smoothness. No one taught us to play Old Maid, that old broken thing, that old pruny biddy with her clucky teeth always looking like a spoon of vinegar.
I remember the homemade dresses, running waves of ric-rac on hems and collars like icing, we wore these to the zoo with its elephant-shaped keys that operated message-boxes. That summery zoo, with mice displayed in huts built like cheese-wedges, the snakes and salamanders in pumpkins, their wavy cuts of wood part of childhood’s vernacular. A place of candy canes, it gave us a period of rubber tomahawks and parking-lot baloney sandwiches and cola that made our heads jingle. The lion cage was empty but we loved its bent metal box that held a story: “the majestic lion” something-something “the loudest roar” and then there was a something-roar. We listened very carefully. We could hear this same thing, every time we turned a red plastic elephant’s trunk in the keyhole.
I remember teeth, our big fifth-grade choppers, cracking hard-down on whole candy mints, the kind stacked in foil rolls with flecks of flint mosaicked inside. Before the bathroom mirror we stood tip-toe, knees on the sink, trying to clamp our teeth but also keep our mouths open. Magic birdlings. I remember how the mints left off sparks. I remember how the sparks came. I remember singing silly songs.
Immagine: Tanya Kooji
Traduzione: Alessandra Garizzo
Pubblicato in originale su: New Flash Fiction Review.

A. E. Weisgerber è un’insegnante, editrice e scrittrice di New York. Membro della Chesapeake Bay Writers (2018), studia alla Robert Frost Foundation (2017) e alla Kent State University Reynolds (2014). I suoi racconti sono apparsi in diverse antologie, i più recenti sono Heavy Feather Review, DIAGRAM, The Alaska Star, Structo UK, SmokeLong Quarterly, Gravel Mag, Matchbook Lit., e Zoetrope Cafe’s Story Machine. È stata segnalata al Pushcart Prize, Best of the Net, Wigleaf Top 50 e Best Small Fictions.