Per sempre giovane
No, agente, la ringrazio, sto meglio. Mi scusi, ma solo ora mi sto rendendo conto. Enrico, il mio povero Enrico. Non riesco a crederci. Non voglio crederci. Così giovane. Lo guardi, agente. Non sembra stia dormendo?
Quanto è bello il mio Enrico. Cinquantadue anni e sembra ancora un ragazzino.
Eppure, agente, io glielo dicevo sempre che lavorava troppo, che non doveva esagerare, che doveva riposarsi. E proprio oggi, dopo settimane, si era deciso. Le vede le valigie lì vicino all’Audi? Doveva andare nella nostra casa in montagna a rilassarsi. Questo caldo lo stava facendo soffrire così tanto.
No, non mi aveva mai detto che si sentiva male. Io, però, lo vedevo quando tornava a casa dopo quindici ore in ufficio. Era stanco, affannato, faceva fatica a respirare. Non era l’Enrico che conoscevo. Io gli dicevo sempre di andare da un medico, di farsi controllare. Suo padre, mio suocero, era morto di infarto a cinquant’anni.
Io avevo sempre temuto che succedesse anche a lui. Enrico, però, era cocciuto. Lo è sempre stato. Del resto, agente, non si diventa dirigenti di azienda se non si ha un carattere forte, no?
“Smettila”, mi diceva “non è nulla. Ho preso tutto dalla mamma. Vedi come è in forma. Io vivrò fino a novant’anni e sarò sempre bello e giovanile come lei”.
Io, però, lo sentivo che non andava tutto bene, che c’era qualcosa che non andava.
Sa, avevo fatto qualche esame di medicina prima di restare incinta.
Alla fine, ieri sera, non so come, ero riuscita a convincerlo.
“Tu domani mattina parti e vai in montagna. Abbiamo una bella casa ed è sempre vuota” gli avevo detto. “No, io ti raggiungo dopodomani. Sai che il giovedì sera ho l’abbonamento a teatro”.
Sì, agente, questa sera dovevo andare con Ester la mia amica. Abbiamo l’abbonamento da così tanti anni, da quando ho smesso di recitare. Perché, lo sa, agente? Io da giovane recitavo. E mi dicevano che ero anche brava. Perché ho smesso? Lo sa, la famiglia, i bambini, il lavoro di Enrico. Ho scelto di dedicarmi ai miei cari. Tanto non avrei mai sfondato. Enrico mi diceva sempre di ricominciare.
Enrico, maledizione, perché lo hai fatto? Perché te ne sei andato così?
E adesso? Adesso, come farò? Cosa farò Enrico senza di te?
I bambini sono a studiare in America e là resteranno, e tu sei lì, disteso vicino al bagagliaio e non ti vedrò più. Non potrò più toccarti, non potrò più sentirti cantare per me.
Cosa mi resta agente? Cosa?
Solo lui, Kevin, il mio piccolo labrador. È stato grazie a lui che l’ho trovato.
Questa mattina ho sentito che Enrico russava e allora l’ho lasciato dormire e mi sono alzata io per portare il cucciolo a fare la sua passeggiatina.
Oggi, però, era così fresco, si stava così bene. Era un peccato non godersi una giornata così dopo tanti giorni di afa. Allora ho fatto un giro più lungo e sono andata al parco a vedere i cigni.
Ci andavo sempre con Enrico a vedere i cigni. “Sono come noi” mi diceva “monogami. Scelgono un partner e restano insieme per tutta la vita. Nulla, se non la morte, li può separare”.
Enrico, avevi ragione, solo la morte ci ha separati. Ma non doveva succedere così presto. Non è giusto agente, Non è giusto.
Sì, agente, ce la faccio, grazie. Cosa le stavo dicendo? Ah, sì. Quando siamo rientrati ero sicura che Enrico fosse già andato via. Mi aveva detto che sarebbe partito alle 8. E lui era sempre così puntuale. Perciò sono andata direttamente a fare colazione ma Kevin ha cominciato ad abbaiare.
Non era una cosa normale per lui. Kevin non abbaia mai. Poi ha cominciato a tirarmi verso la porta sul retro. Sì, quella che dà sul cortile dove abbiamo il garage.
E quando ho aperto la porta ho visto l’Audi ancora lì. Le valigie per terra e una scarpa da trekking che sporgeva da dietro la ruota. La sua scarpa da trekking. Ho capito subito che c’era qualcosa che non andava.
Son andata di corsa e l’ho visto.
Era così come lo vede ora. Una mano sul petto, l’altra stringeva forte il cellulare, gli occhi chiusi, la bocca semiaperta come se stesse sussurrando il mio nome per l’ultima volta.
Maledizione, Enrico. Perché non sei riuscito a chiamarmi? Perché non mi hai telefonato anche questa mattina come facevi ogni giorno?
Sì, agente, le sembrerà impossibile, ma dopo quasi trentacinque anni insieme mi chiamava sempre alle nove del mattino per svegliarmi e mi cantava la stessa canzone con la sua voce meravigliosa.
Senta agente, l’ho messa anche come suoneria del telefono.
Non è bella? Senta la sua voce, ascolti le parole. “I’ve just called to say I love you”
Se la ricorda agente? Stevie Wonder, sì. È con questa canzone che Enrico mi ha conquistata quando eravamo ancora al liceo. Enrico cantava in un complessino. Con quella voce avrebbe potuto farlo di professione il cantante. Glielo dicevo sempre. E una sera si era presentato sotto la finestra della mia casa. E l’aveva cantata solo per me. Il suono della sua voce mi aveva sciolto il cuore.
Anche mio padre lo aveva sentito. Pensavo l’avrebbe picchiato. Era sempre stato così severo e possessivo nei miei confronti. Invece aveva aperto la porta, lo aveva applaudito, e lo aveva fatto entrare in casa, nella nostra famiglia e a far parte della mia vita.
C’eravamo sposati giovani. Io ero rimasta incinta quando ancora ero all’università. Per amore suo, avevo rinunciato a lavorare e mi ero dedicata ai bimbi e ad aiutarlo a far carriera.
Non avrei mai pensato che il lavoro, alla fine, lo avrebbe ucciso. Sa, le preoccupazioni, le scadenze, la crisi, lo stress. Me lo hanno ucciso. Ed è solo colpa mia che non l’ho fermato in tempo. Colpa mia che oggi non son tornata prima. Solo colpa mia. Solo mia.
Grazie agente per il fazzoletto. Mi scusi di nuovo. Sì, capisco. Deve andare. Me lo portate via? In ospedale? Non vorrete mica rovinarmelo? Io lo voglio ricordare e salutare così, bello e senza cicatrici come è ora. Ah, è solo per una formalità? I motivi del decesso sono chiari? Sì, ho capito. Posso passare questo pomeriggio con gli abiti. Prima avvertirò i bambini. Ora a Los Angeles è ancora presto. No grazie, non mi serve nulla. Resterò qui a pensare a quante cose avremmo potuto ancora fare insieme.
Grazie agente, grazie di tutto. L’accompagno? No? Grazie ancora per la sua pazienza. Tratti bene il mio Enrico.
Cosa c’è Kevin? Perché mi guardi così? Vuoi uscire ancora? Vuoi bere? Vuoi mangiare?
Cosa c’è Kevin?
Sì, ho capito cosa hai.
So cosa vuoi dirmi. Enrico ti mancherà. Lui ti portava sempre a correre. Lui giocava con te. Lui ti faceva tante coccole. A lui volevi tanto bene. Lui, lui, lui, lui. Kevin, tu non capisci, ma lui, il tuo padrone tanto affettuoso, voleva lasciarti Kevin.
Voleva lasciare te, Kevin. E voleva lasciare anche me. Tu ieri sera non hai sentito cosa mi ha detto.
Eri lì, in veranda, a dormire beato nella tua cuccia. Non lo hai sentito arrivare a notte fonda.
Non lo hai visto sbuffare quando gli avevo detto che avrebbe potuto avvisarmi. Non lo hai sentito dire che era, come al solito, colpa dell’ingegner Riva con cui aveva dovuto discutere per ore.
“E poi non farla tanto lunga, il lavoro è lavoro e non trovavo il cellulare. Lo sai che i numeri io non li ricordo e non sapevo come avvisarti”. Così mi aveva detto, infastidito come sempre. E allora Kevin, io non ci ho più visto. Il suo cellulare l’avevo trovato mentre sistemavo la sua camera. E avevo risposto io alla telefonata dell’ingegner Riva che voleva salutarlo dall’aeroporto prima di partire per le ferie. Kevin, tu non hai visto come è diventato Enrico. Il buon Enrico, il bell’Enrico, l’Enrico amato da tutti. Mi ha urlato che era stanco di me, che aveva bisogno di nuovi stimoli, di una persona che lo facesse sentire giovane, di una persona che lo capisse, che lo facesse sentire vivo. Io ero vecchia dentro e fuori. Non voleva avere più niente a che fare con me.
Era meglio per entrambi. Lo diceva anche per il mio bene. Poi se n’era andato in camera sua, dicendo che sarebbe andato in vacanza con Laura e che non sarebbe più tornato qui da me. Qui da noi.
Kevin, dimmi, tu cosa avresti fatto? Kevin, cosa avrei dovuto fare? Cazzo Kevin, non guardarmi così? Parlami!
Io son rimasta tutta la notte a pensare a tutto quello che avevo passato. A tutto quello a cui avevo dovuto rinunciare: la laurea, il lavoro, il teatro. A tutto avevo rinunciato. A tutto. E solo per lui. Per appoggiarlo. Per non farlo preoccupare di nulla. Chi aveva seguito i bimbi quando erano finiti nei guai? Chi?
Lui no di certo. Lui pensava solo a sé stesso. Ai suoi successi. Ai suoi trionfi. E ora? Ora se ne andava con una che poteva essere sua figlia. Perché lui era giovane, lui voleva essere giovane per sempre.
Dimmi Kevin. È giusto tutto questo? È giusto? Te lo dico io, Kevin. No, cazzo, non è giusto. Ma io sono generosa e ho voluto fargli un ultimo regalo: l’ho fatto restare giovane per sempre.
Mi dispiace solo aver sbagliato le dosi, Kevin. Quando gli ho fatto quell’iniezione mentre russava come un maiale, credevo che l’infarto gli sarebbe arrivato quando sarebbe stato già con quella zoccola e non qui a casa mia. Mi sarei risparmiata la prova di recitazione con l’agente. Ma va bene lo stesso. Dopo le nozioni di medicina ho rispolverato anche quelle teatrali. Dimmi Kevin, sono stata brava?
Grazie, Kevin, lo so. Ti avevo mai detto che mi avevano ammesso anche all’Accademia?
Dici che la parte di Stevie Wonder era un po’ esagerata? Che quell’agente poteva capire che la voce della suoneria era quella di un professionista? Hai ragione, Ma non ho saputo resistere. Mi è sempre piaciuto inventare trame e storie. Potrei cominciare a scrivere.
“La sublimazione del dolore nella scrittura. L’opera di una scrittrice esordiente che ha tanto da dire a tutti noi” Mi vedo già le recensioni. Che ne dici? Ma cosa è questo rumore? Oh, il cellulare di Enrico. Ma che suoneria è?
“Forever Young”. Che scelta banale. Deve essere la sua giovane amichetta. Ora mi sentirà. Si ritorna in scena Kevin.

Informatico che ha scoperto da pochi anni il piacere della scrittura cimetandosi, per il momento, solo in brevi racconti.