Pavan detto Volpe
Per chi scrive, penso, la libertà aumenta esponenzialmente con l’aumentare delle costrizioni imposte. Ideare questo racconto, nato con l’obbligo di tematica, ambientazione e lunghezza, mi ha molto divertito. Non ci si pensa, ma, prima di scrivere, bisogna studiare. Sono stata dunque fortunata, perché da anni mi interessavo ai misteri delle colline del Veneto, alle tradizioni contadine, con tutti gli eventi inspiegabili, le credenze e le tradizioni di repertorio.
Il protagonista del racconto non è dunque Volpe, non è il suo cane, ma è la comunità intera, con le sue fatiche, le fantasie e le paure. Immaginate adesso di essere in inverno, con tutti i vicini di casa in una stanza rischiarata dal fuoco; un bicchiere di vino e qualcuno inizia a raccontare…
C’era a Trepalade, tra il Sile e il Siloncello, un vecchio, vecchissimo mulino. Sotto le pale indefesse l’acqua, va da sé, mormorava, rideva, scrosciava, incupiva, spumeggiava e, insomma, contribuiva a produrre quei cinque-seicento quintali di mais al giorno.
A gestirlo c’era… e qui dobbiamo metterci d’accordo. Tre giorni dopo la nascita i genitori e il santolo lo avevano portato nella chiesa di San Magno e battezzato Pavan Pietro Maria. Per non confonderlo con suo cugino Piero, i parenti lo chiamavano Piero “del Molin”. Cresciuto un po’, dopo una sbronza colossale aveva rincorso all’uscita della messa quattro o cinque ragazze con un’anguilla nelle mutande e gli amici avevano preso a chiamarlo Piero Bisato. Infine, qualche anno dopo si era sposato con Giovannina Gusella e, non si sa bene perché, da quel momento fu semplicemente Volpe. Bah. Insomma, morto il padre, Volpe s’era preso una casetta per la famiglia da dove faceva su e giù col mulino e, quando non ne poteva più della Giovannina e dei sei figli, o pescava anguille, o camminava col cane lungo il Sile.
Il padre, mugnaio, come tutti in famiglia, gli aveva raccontato non so che storia di non so che notte, una formula, ma lui, niente, polenta, anguille e cane. A messa solo a Natale e per la festa del Santo, e già gli seccava. Finché una volta, oppresso dal caldo e dal pianto dei figli, uscì col cane a notte fonda e, per abitudine, andò verso il mulino. C’era la luna, sì, ma non rallegrava. Le rane si erano spente, i culi delle lucciole tacevano. D’un tratto il cane si mise ad abbaiare furiosamente, mentre le campane rintoccavano la mezzanotte. Come catturate dalle pale, delle strane figure bianche partivano dall’aria e scendevano poi in processione accanto alla riva. Erano lente, ma venivano proprio verso di lui.
– Fantasmi! – pensò, e voleva girarsi e andar via, ma quelli gli erano già intorno e cercavano di acchiapparlo. Allora, senza sapere come, si ricordò la storia del padre e della formula: Anema terena, stame tre passi indrìo e contame la to pena!
Tre volte gridò e alla terza i fantasmi scomparvero. Quando si risvegliò il mulino era a posto, ma lui non aveva più un capello. E del cane c’era solo un pezzetto, un moncone di coda insozzato e fetido. Si ricordò che era la notte di San Giovanni, ahi ahi.
Quando lo videro, i paesani gli gridarono – Oé, Volpe, el bisato te gà magnà i cavei? – ma lui, la coda del cane in mano, andava avanti.
Incontrò Rosina Tosatto, detta Tegolina, che si mormorava facesse i pignatei, malefici e filtri d’amore.
– Osso da morto! – Volpe si irrigidì.
– Tu vorresti indietro il tuo cane, eh? Stanotte va nel posto di ieri alla stessa ora e porta la coda.
Volpe bofonchiò un ringraziamento, regalò un sacchetto di polenta alla vecchia e tornò a casa, chiudendosi in stanza, mandando a remengo moglie e figli. La serà si avviò, dalla tasca scivolò via quel pezzo maleodorante di peli e di ossa, ma lui non se ne accorse e, su una quercia vicino al mulino, aspettò la mezzanotte. Come la sera prima discese la processione di fantasmi, ancora più lunga e paurosa. Lo avevano visto sull’albero e sghignazzavano tutti insieme – Sempre pì in alto, ca ciapémo anca staltro!
C’era anche il fantasma del cane, che si avvicinò e gli chiese:
– Hai la mia coda? Dammela e ti salvo.
Volpe mise la mano in tasca e l’unica cosa che trovò fu un grande buco, il cane sparì e lo lasciò ai fantasmi. La mattina dopo il figlio più grande lo trovò morto stecchito, coperto di penne di folaga. Nessuno volle più andare al mulino e moglie e figli iniziarono a coltivare bachi da seta.
E se qualche temerario si aggirasse nella notte vicino al vecchio mulino, stesse ben attento a non incontrare Volpe e il suo cane dalla coda monca. Finirebbe molto, molto male.
Beffarda la morte, breve la vita,
andate a dormire, la storia è finita.
Racconto vincitore del concorso Veneto del Mistero 2018
Immagine: NeedleAndThreadEtc

Valentina Confuorto è videomaker e autrice. Col suo primo racconto scritto a 16 anni ha vinto il primo premio del “Modello Pirandello”, prendendo ad Agrigento un milione – e tre chili.
Oltre ad aver vinto numerosi concorsi letterari, si è dedicata alla realizzazione di opere multimediali legate alla musica, piazzandosi bene o in pole position in concorsi nazionali e internazionali.
Con il documentario Nascostamente ha vinto il primo premio del VideoConcorso Francesco Pasinetti nel 2013.
Per Tartini2020 le è stata commissionata una commedia e ha scritto Le dissonanze. Tartini, musica e bollori. Per il Carnevale di Venezia 2018 ha scritto e diretto lo spettacolo El ziogo dele perle de vero.
Non potendo avere un gatto ha una pianta carnivora.
Per saperne di più www.valentinaconfuorto.wordpress.com