Nel museo di Reims
A volte le parole non bastano.
E allora servono i colori.
E le forme.
E le note.
E le emozioni.
(Alessandro Baricco)
Vi è mai successo, per scuola o per università, di venir messi davanti ad una lista infinita di titoli di opere mai viste sulla faccia della terra e vi salisse il panico per scegliere il libro meno peggio prima che i vostri compagni rubassero i papabili migliori? E qual era il criterio di scelta per eccellenza? Si contava il numero di pagine, ovvio. Chi mai avrebbe espresso il desiderio di passare le vacanze estive leggendosi mattoni…
Anche io, così, al primo anno di università sono rientrata nel “gruppo contante” quando per l’esame di avviamento alla scrittura critica ho dovuto scorrere il dito su una serie di titoli a me sconosciuti. Istintivamente la mia decisione cadde su quello più breve, su quello di ben 54 pagine, ma non mi ero ancora resa conto della perla letteraria che tenevo tra le mani.
Nel Museo di Reims di Daniele Del Giudice (Einaudi, 2010) ha una copertina semplice però di grande effetto: bianca con un dettaglio del quadro Marat assassiné di Jacques-Louis David. Eccolo, il protagonista, all’interno della sala del museo. Cammina lentamente passando in rassegna ciascun quadro esposto; si avvicina, cerca di scrutare i colori predominanti sulla tela. Si avvicina ancora, questa volta per identificare i personaggi: una ragazza, un padre irato, un albero abbattuto… Ma Barnaba ormai si è rassegnato a ciò che è ora, diverso da quel ragazzo robusto e con undici decimi di vista di quando lavorava per la Marina Militare.
Ora si china in avanti con lo scopo di leggere il nome del quadro di fronte al quale si è soffermato cercando di non far trapelare esteriormente la sua condizione a metà. Il custode della sala e i turisti anziani non sembrano prestarvi attenzione tranne una ragazza bionda, poco più distante, che con uno sguardo ha inteso tutto.
Se si sta cercando un racconto dalla prosa così nitida da essere tersa, si è come obbligati a fermarsi per sfogliare questo libricino dove il museo della cittadina francese diventa sfondo e mezzo di comunione tra due anime che si incontrano a un livello spirituale e dove la fisicità, la materialità dell’essere, sfuma man mano che le impressioni e sensazioni sulle tele si intrecciano:
Come farò senza colori? In questo buio, la notte, certe volte mi concentro e viene fuori da chissà dove un arancio caldo, o un blu […] È come per la musica, anche per quella ci deve essere un deposito nella mente, e quando è così buio se mi sforzo riesco a sentire brani interi […] È una temperatura calda, come calda è la temperatura dei colori, e in ore come questa prende alla gola e accelera il respiro…E le voci, poi. A mano a mano che la vista perdeva effetto si ampliavano gli altri sensi […] e adesso è il tatto a darmi la consistenza delle cose e vorrei toccare tutto, come sono toccato dalle voci. La voce di Anne ogni tanto mi sfiora, o mi prende alle spalle, ci sono momenti in cui spinge e fa forza, degli altri in cui tira con delicatezza (pag. 29).
Un protagonista che sta diventando cieco e vuole imprimere in sé le immagini, seppur sfocate, di capolavori dell’arte; una sconosciuta, Anne, che si improvvisa accompagnatrice guidandolo, quadro dopo quadro, nella scoperta e nell’abbandono a un vedere nuovo; un museo francese; un quadro. Perché è proprio il Marata a legarli?
Ogni angolo si salda a una frase di Anne, a un suo silenzio, a una tensione o a un abbandono, e un po’ alla volta si è orientato lungo il percorso non perché riconoscesse bene i posti ma perché ricordava distintamente il momento con Anne cui ciascuno di essi si legava. […] E arrivò al Marat assassinato. […] C’è stato un fruscio leggero, più che un fruscio una presenza alle sue spalle. Anne era già lì da qualche istante e lo guardava senza fare rumore; solo quando Barnaba ha cercato di voltarsi ha detto piano «La ferita è sotto la clavicola, verso l’ascella…». […] Barnaba non ascoltò nemmeno una di queste parole, era così emozionato, riuscì soltanto a dire: «Non pensavo che sarebbe tornata qui», e Anne rispose: «Perché?», poi sorrise e aggiunse: «Vuole che vada avanti?» e lui fece cenno di sì (pag. 34).
Daniele Del Giudice alterna con naturalezza un narratore esterno, il quale narra gli avvenimenti come se si stesse ponendo molto vicino ai personaggi, a un narratore interno, Barnaba, che racconta in chiave autobiografica e quasi diaristica gli avvenimenti sottolineando i suoi pensieri, le paure, i sentimenti.
L’autore è riuscito, anche in un racconto così breve, a disegnare una storia significativa con una scrittura calibrata lasciando così fluire la lettura con una sensibilità che arriva a coinvolgerci fino alla fine. Un romanzo sublime da leggere tutto d’un fiato.
Immagine: Ilaria D’Este

Annata 1992, in una tiepida sera di Aprile. Laureata magistrale in lingue e letterature straniere, percorso iberista, con la missione di rivelare/svelare alla gente che per conoscere la lingua spagnola non basta aggiungere la “s”. Docente di spagnolo per passione, condivido la mia esistenza con due bonsai, acquerelli e valanghe di libri.