La vita mette fretta, l’amore invece è l’acqua ferma di un lago. (Il mostro di Canterno)
Non doveva trovarsi lì.
Era talmente ovvio che non serviva neppure dirselo.
Ma quando mai quella zona infestata di rovi e brunita di pietre era stata un bel posto?
I bambini avevano il divieto di andarci e solo di sera qualche coppietta in cerca di riparo s’azzardava sulla stradina buia, fino allo spiazzo che finiva all’acqua.
I vecchi dicevano che al lago non ci si poteva bagnare, perché sotto le sponde sprofondava un vulcano, che arrivava alle cavità della Terra. Quando una barca di pescatori s’era rovesciata, anni prima, non si erano trovati neppure i corpi, né mai l’acqua aveva restituito l’elicottero e l’equipaggio che si inabissarono durante un volo sfortunato.
No, lì proprio non ci doveva stare.
Eppure scese dalla macchina e avanzò verso il lago.
Notò che era più ampio di come lo ricordava: certi tronchi, in alcuni punti della riva opposta, affondavano tranquilli sotto l’acqua, restando coi rami vuoti alla luce.
Per non schizzarsi di mota fino alle cosce, Ugo saltava da un dosso d’erba a un altro, cercando quelli meno fradici e fangosi. Sentiva il freddo trafiggerlo: faceva più freddo quassù che al paese, d’inverno come d’estate, forse a causa dell’umidità che sporgeva come uno strato di vernice lungo Canterno, fino ai fianchi delle colline d’intorno.
Erano così le magiche terre dell’avventura, vagheggiate quando era bambino. Dal lago e dai suoi vapori poteva venir fuori un drago, la cui presenza sarebbe risultata verosimile almeno quanto quella quieta e silenziosa di un vulcano dalla bocca annacquata. Verso i dieci, undici anni non faceva che parlarne, a scuola, coi compagni. Sarebbe stato un colpo di fortuna intravedere la bestia, ma ancora di più stanarla, tornando al paese a raccontarlo da eroe.
Poi un’estate, insieme a Baffo, Quattrocchi, il Sola e Connutto, si era risoluto di passare ai fatti: avevano radunato qualche asse per fabbricarne trappole. Connutto aveva portato lo spago, lui i chiodi. Per esca misero gli avanzi della cena. Si erano armati di fionde, scortecciate nella biforcazione di rametti. Le sponde inghiaiate dell’acqua li provvedevano di proiettili.
Entusiasmati dalla caccia più che oppressi dal pericolo, trottarono fino al lago per una settimana circa, scivolando in silenzio dalle finestre appena faceva notte, quando mostri, draghi e predatori escono allo scoperto, con il favore del buio. A quell’ora, mentre i paesani sparecchiavano la tavola e s’infilavano a letto, l’intraprendente combriccola sbucava alle rive di Canterno e s’asserragliava dietro una catasta di legno diventata fortilizio, a confabulare d’iniziative avventurose.
Quando, con il passare dei giorni, fu chiaro che la bestia era furba e non sarebbe venuta a inciampare nelle trappole, progettarono d’usare le assi per farne una zattera, scegliendo le più spesse che meglio galleggiassero. Nessuno badò a una sagoma sul ciglio del lago, ferma che poteva essere un albero rimasto dentro l’alluvione o l’ombra di uno spirito maligno venuto a pigliarseli. La ghiaia scricchiolò che stava già alle loro spalle e improvvisamente lo videro. Era un adulto tarchiato, gli occhi buoni, la bocca sottile.
Ragazzi, che fate qui?
Tacquero.
Non erano spaventati, soltanto naturalmente reticenti, come d’abitudine di fronte ai grandi.
Non è tardi per stare a giocare? Dove sono i genitori?
Connutto tastò la fionda nella tasca. Gli sarebbe servito almeno un sasso per risultare minaccioso, ma non aveva tempo di cercarselo.
Siamo in missione, disse, nonostante fosse assurdo.
L’uomo sorrise.
Capisco. In questo caso vorrei darvi una mano. Ma dovete dirmi che genere di missione.
Costruiamo una zattera.
Mm. Allora serve legna larga e robusta.
Si chinò a sollevare un ramo. Era pesante, se lo poggiò in spalla e lo rovesciò più in là, ai loro piedi. Era perfetto, avrebbero potuto usarlo come fondo di zattera.
Sembrava facesse sul serio. E a loro piacque quell’uomo che anziché sgridarli o umiliarli con l’arroganza che l’età adulta infligge ai più piccoli li assecondava, sporcandosi d’acqua e fango.
Li aiutò a recuperare lo spago dalle trappole che avevano realizzato nelle notti precedenti e mentre ne scucivano i nodi, capì che sarebbe servito un doppio strato di tavole, se la zattera doveva reggere allo sforzo di portarli tutti.
C’è dell’altra legna laggiù, verso il boschetto. Uno di voi può accompagnarmi, basterà un solo carico.
La sapeva lunga. La sciapa luce della notte gli si spalmava sulla testa calva e cadeva lungo la fronte, negli occhi furbi e benevoli.
Vengo io! Disse Connutto, ch’era più grande, coi suoi tredici anni, e preferiva scansare a calci la sterpaglia e trascinare legna piuttosto che accovacciarsi sul cordame come una donnetta. Si sentiva uomo fatto da sempre, con il padre fuori per lavoro, che pochi giorni al mese portava a casa soldi e nuove nostalgie.
Così si mossero verso la schiena della collina, addentrandosi nel buio.
Presto gli scricchiolii sotto i passi si persero.
Restarono in tre attorno alle gabbie di legno, con le piccole dita che tramestavano ad aprire le corde e le teste ingobbite per non sentire il silenzio, che adesso faceva paura.
A slacciare i nodi bastava il chiarore dell’acqua che specchiava la luna e spaiava il riverbero tutt’attorno. Ma oltre la chiazza pareva il mondo finisse: e la notte cadeva da ogni parte.
Per non farsene intimorire, i ragazzi cominciarono a dirsi le cose che avrebbero fatto appena Connutto fosse tornato, fierissimi dei rischi e delle fatiche che a ciascuno sarebbero toccati.
Cominciò il Sola a colorire le espressioni con le parole che non avrebbe mai usato in casa o a scuola. E più laide erano, più sapevano attirare la meraviglia degli altri, per quel modo di parlare che apparteneva solo alle conversazioni dei grandi. La notte, Canterno e la circostanza cancellavano i freni e i bambini discutevano come fossero liberi.
Se avessi un coltello! Fece Ugo. Quello a serramanico di mio fratello. Si tirò in piedi, sgranchì le gambe anchilosate.
Che ci faresti? Non sai mica usarlo tu, un coltello.
Il Sola rideva, inginocchiato accanto alla sua tagliola di legno imputridito.
Ugo mise su una faccia ingrugnata.
Come niente ti taglieresti una mano.
Al Sola gli piaceva sempre canzonare gli altri.
Ugo lo raggiunse, lo strattonò. Rotolarono nel fango, tirandosi i capelli e colpendosi dove potevano.
Basta! Ma che siete scemi?
Quattrocchi indicò il lago che, come un monolite d’acciaio, scintillava.
Sotto c’era il mostro.
La cosa più stupida è svegliarlo con tutto ‘sto chiasso.
Fanculo, Quattrò. Non ti mettere in mezzo.
Il Sola rideva, ma era più scocciato che allegro.
Invece Ugo lo prese la smania di scrollarsi l’aria fredda di dosso e di procurarsi la prova inequivocabile della virilità che Sola metteva in dubbio.
Fate la guardia al lago, che penso io a pararvi il culo.
Scattò all’impiedi e si mosse.
Dove vai?
Raggiungo Connutto, così ci sbrighiamo.
Pensò che non avrebbe potuto essere più scenografico di così. Si concentrò su un passo calmo ma deciso, quasi marziale. E gli veniva una grande soddisfazione immaginandosi alle spalle la faccia degli amici, adesso che lo vedevano attraversare la notte da solo.
Ma resta! Vieni qua, dai.
Finse di non sentirli ed entrò nel bosco.
Certe radici, come schiene di coccodrilli, affioravano sul sentiero sconnesso e doveva stare attento a non inciamparci su. Col naso per aria, annusando la brezza, valutava mentalmente la consistenza dei rami che si prestavano a diventare grate di zattera. Gli aizzò l’immaginazione il folto arboreo in cui s’era addentrato, perché la guerriglia, ch’era il gioco preferito, ci si poteva fare come in nessun altro posto.
Poi all’improvviso sentì le foglie muoversi e una quantità scomposta di fiati grossi, agganciati l’uno all’altro.
Il groviglio che vedeva lo paralizzò.
C’era l’uomo rovesciato sopra Connutto, le natiche strette che premevano, a intermittenza, e Connutto non c’era quasi, sparito tra le foglie fruscianti.
Di lui rimaneva solo un filo di voce.
Non gridava.
Solo un miagolio leggero.
Straziante.
Ugo s’appiattì a terra e le sterpaglie gli entrarono tra i capelli.
Il cuore gli scappò a pulsare entro le vene di polsi e caviglie.
Adesso quel verde, che da sotto le ginocchia gli spuntava tutt’intorno e sulla testa gli chiudeva il cielo, gli dette un capogiro.
Voleva tornare subito al lago.
Eppure dal grumo dei corpi che dondolavano, gli squittii convulsi e gli ansimi feroci senza sbocco lo trattenevano in una stupida immobilità.
Sulla testa dell’uomo la selva pencolava rami lunghi, nudi come pareti di grotta.
Si fece forza e provò a strisciare a ritroso, poi, quando fu a sufficiente distanza, si mise in piedi e corse via.
Inciampò su un ramo. L’afferrò e lo scagliò contro un tronco.
La scena delle natiche nude con cui l’uomo pigliava Connutto gli sopravviveva dentro gli occhi. Voleva mandarla via, non riusciva a sopportarla.
Gli sembrò di risentire il piagnucolio di Connutto, ma lo respinse come un ricordo falso. Quella roba non era mai esistita.
Tirò un calcio a un ramo d’albero che gli intralciava il cammino.
L’uomo meritava una morte feroce.
Dovevano scuoiarlo, costringerlo a bere veleno per topi, appiccargli il fuoco ai vestiti, lapidarlo di fitte sassaiole, oppure soffocarlo mettendogli la faccia dentro una busta della spesa. Nessuna tortura poteva bastare.
Ma appena le pensava, tutte le torture si sgretolavano, schiacciandolo. Che avrebbe detto agli amici?
Quando avessero sgamato che non era stato capace d’aiutare Connutto l’avrebbero schifato.
Non era un soldato. Proprio per niente.
Le gambe di burro crollarono e dovette tenersi abbracciate le ginocchia perché non tremassero. Restò così a lungo, ingoiato dentro la sua ombra.
Quando tornò sull’argine, Baffo sbottò: Dov’eri finito? Facendogli un cenno in direzione di Connutto.
È tornato da un pezzo, lui!
Ugo trasalì, di un’angoscia ancora peggiore.
Connutto lo guardò torvo, ma forse fu solo una sua impressione: Connutto lo guardava e basta.
Non ha trovato legna in tutto il bosco. Ci crederesti? La voce del Sola era avvelenata.
E tu?
Che ne so io. Mica cercavo legna. Io cercavo lui.
Ugo fece attenzione che la desolazione non gli premesse sulla voce.
E l’uomo? Azzardò con un filo di fiato. Interrogava Connutto con gli occhi ancora spaventati.
Che cazzo di domanda. Sono mica la sua balia. Magari è annegato.
Magari se l’è divorato il predatore! Incalzò Quattrocchi, aggiustandosi gli occhiali sul naso.
Spinti gli uni dallo sguardo degli altri si voltarono a Canterno, per provare a riconquistare da lì il piacere della fantasia.
Ugo racimolò un po’ di coraggio per appoggiare una mano sulla spalla di Connutto. Ma non gli riuscì, lo distrasse un baluginio svelto sulle lenti di Quattrocchi.
Quella sera, quell’estate, le scorribande finirono, nello scorno di essere stati eroi monchi di un’avventura disgraziata.
Un nuovo anno arrivò, leggero.
E, scoraggiati dal freddo autunnale e dalle giornate plumbee, i bambini si rinchiusero in casa a studiare. Sognavano l’estate, con l’infondata certezza che agli scoppi di sole sarebbero risorti i giochi, i nascondini, le cacce alla fionda. Invece giugno arrivò di soppiatto e non bastò a riportare la vitalità succosa e scomposta dei sodalizi infantili.
Nessuno ormai parlava di mostri o di fantasmi; Baffo, Connutto, il Sola, Quattrocchi, lui stesso erano diversi, di fuori e di dentro.
Erano diventati grandi.
La vita, che marcia a passi più lunghi di quanto sappiano le gambe, li aveva in qualche modo afferrati e, nel tempo breve di qualche stagione, addestrati alla buona convenienza dei silenzi.
C’erano cose che in paese non si potevano dire, parole che nessuno usava.
Neppure la tivù parlava di pedofilia.
Il sesso rubato ai bambini sarebbe diventato sensazionalismo giornalistico molti anni dopo, quando i soprannomi in paese non se li ricordava più nessuno e le donne avevano smesso d’incontrarsi in grembiule per strada.
Tra le ortiche e i cardi correva una rete di filo spinato, che in punti si apriva tra smagliature e varchi, in altri s’appoggiava a terra, coi paletti divelti e le erbe abbarbicate.
Ugo si guardò intorno. Non c’era nessuno, a parte loro due. Le foglie degli arbusti erano impolverate, come fossero antichissime.
Fa’ attenzione! Disse schiacciando il filo di ferro sotto la scarpa.
È arrugginito.
Lo tenne sotto il tacco finché il ragazzo non scavalcò, con una falcata faticosa per le gambe mingherline.
Che posto è?
Ti piace? Venivo qui a giocare, quando avevo pressappoco la tua età.
Neppure adesso che da insegnante godeva della vicinanza di centinaia di giovani Ugo riusciva ad abituarsi alla loro adolescenza.
Il frivolo subbuglio del corpo, la resilienza del candore nelle voci, l’inesperienza delle emozioni ancora nude, il fascino della seduttività acerba. Tutto era arioso e approssimativo.
Scesero alla spiaggia.
Tancredi era infantilmente e gioiosamente entusiasta d’ogni cosa.
Prese un sasso e lo lanciò radente al lago.
Prof, hai visto che sono bravo? disse contando i rimbalzi, poi guardò Ugo, con la soddisfatta attesa di chi sa perfettamente di incantare.
Il timbro della voce, che volava di solito su toni acutamente femminei, cedette in un affondo baritonale.
Non c’era ancora stabilità, come non c’era nella fisicità del corpo efebico, nella magrezza degli arti, nell’oscillazione dinoccolata della testa.
Non poteva resistergli. Doveva prenderlo.
Gli si strinse addosso con la follia di arrivargli dentro l’anima e la foga di morderne la pelle, annaspando nell’incavo delle scapole, scarne da sembrare costole d’ali.
Tancredi restò paralizzato. D’istinto rinunciò a scappare: s’accucciò chiudendo il corpo a scudo.
Urlava ma non si capiva che diceva.
Urlava. Urlava. La voce si spegneva contro le braccia, contro le gambe dentro cui tentava di ripararsi.
Gli sentiva la paura farsi sudore e sciogliersi sotto la maglietta, a portata di carezze e d’olfatto.
La violenza con la quale gli raggiunse le narici fu talmente esasperante che gli impose, suo malgrado, di fermarsi.
Riconobbe allora nel guscio di Tancredi la stessa fragilità annidata negli altri bambini, come se tutti selettivamente avessero ereditato la medesima sovrapponibile verginità.
Esche vive dell’inquietudine che in Ugo cominciava e finiva altrove, oltre il furto. Oltre lo stupro.
Tancredi cominciava a piangere e Ugo cercò di rassicurarlo, alla fine gli sorrise mentre stringeva tra le mani il collo, sempre più forte, sempre guardandolo con tutto l’affetto che sapeva. Non voleva davvero dimenticare niente di quegli occhi frementi, che sfumavano deformandosi appena, mentre Tancredi scivolava sull’acqua, galleggiando a braccia in croce.
Prima che Canterno lo risucchiasse, vagò qualche istante sul piano liquido senza inciderlo, senza peso.
Quando il lago si riallungò nel grigio lattiginoso, Ugo sorrise.
L’innocenza gli era ancora possibile.
Erano passati oltre due anni. Il paese aveva reagito alla scomparsa di Tancredi con iniziale subbuglio, belluine dichiarazioni di vendetta nei confronti degli ignoti responsabili, mai scovati dalle indagini, poi con un sonnolento oblio.
Ugo non era più tornato a Canterno, fino ad ora.
Da ragazzino pensava che il diritto a deflorare il lago spettava al cuore audace che osasse stanare il mostro, adesso notava il contrappasso ironico: l’acqua non divorava nulla che non si fosse perso già; sulle rive vivevano i mostri, al fondo appartenevano i silenzi, i segreti, i polmoni gonfi degli annegati.
Prof, che fai?
Distolse gli occhi dal lago e si voltò. Paolo gli veniva incontro, correndo leggero tra le radici, con quell’adolescenza fiorita che oltrepassava ogni arroganza.
Che ci fai qui?
Vieni, disse Ugo sorridendo. E qualcosa gli si schiantò nel petto.
Lo sciabordio dell’acqua era lievissimo, appena percettibile.
Racconto vincitore Premio Zeno
Immagine: GoOutsidePhotography