La trasmissione del dolore
Seguendo le fasi che precedono una delle tante trasmissioni di vita in diretta, un uomo, un padre, ci trasporta in un destino collettivo ridondante di indagini, feticci sentimentali, dolore sincero, pattume generico. Un puzzle di sequenze narrative dal ritmo serrato dove quotidianità e tragedia si confondono, sovrapponendosi, in un incubo mediatico dai contorni orwelliani.
Fissò il led verde e le lamelle di plastica dello split che ondeggiavano con un movimento lento dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto. Il termostato indicava che la temperatura nel camerino era di 25°. Premette il tasto per abbassare i gradi e si avvicinò alla toeletta. Il ripiano era ricoperto da una formica lucida. La sua immagine riflessa dallo specchio era contornata da una serie di lampadine tonde che rimandavano una luminosità vivida. Si sedette sulla poltroncina in pelle e si spinse coi piedi facendo cigolare le rotelle avanti e indietro su un parquet che sembrava posato da poco tanto era lustro.
Aveva indossato una camicia bianca e una giacca grigia e si era rasato prima di uscire di casa e adesso si sfiorava con le dita il collo e la parte inferiore del mento voltando la testa verso destra e verso sinistra. Serrò i denti e perlustrò l’intera arcata per scorgervi eventuali residui della brioche che aveva mangiato al bar degli studi, un open space asettico con un lungo bancone inox e dei ripiani di vetro. Sollevò dal ripiano un barattolo che conteneva talco e subito lo riappoggiò quando sentì oltre la porta la voce di un uomo urlare, in scena!, in scena!
Un orologio digitale sopra lo specchio segnava le due e tre minuti. Di fianco all’ingresso c’era un attaccapanni dal quale pendevano delle cinghie in tela blu con dei pass. Guardò ancora il termostato. La temperatura era scesa di 2°. Prese il foglio dalla tasca della giacca, lo dispiegò e lesse per l’ennesima volta le domande che l‘assistente gli aveva allungato prima che entrasse in camerino. Si mordicchiò un’unghia. Si passò una mano fra i capelli. Guardando la sua immagine riflessa ripassò le risposte che aveva pensato di dare provando allo stesso tempo espressioni e pose. Fece una tirata sulle prime sei domande, elaborando riflessioni e concetti, e rimase indeciso sull’ultima riga: Che cosa farebbe se dovesse trovarsi davanti quei ragazzi? Sul ripiano della toeletta oltre al barattolo che conteneva il talco c’erano una serie di tubetti color crema allineati per ordine cromatico, dal più scuro al più chiaro. Fece scrocchiare le dita. Si allungò in avanti per stirare la schiena. Richiuse gli occhi, li riaprì e intravide delle macchie d’unto sulla base dello specchio che prima non aveva notato.
Una serie di quadretti erano disposti in ordine simmetrico su una parete. Su ognuno erano incorniciate foto della presentatrice affiancata da una serie di ospiti più o meno noti. Quattro foto erano in bianco e nero e tre a colori. Su ciascuna foto risaltava l’ampio sorriso della donna che ricordava quello di certe attrici americane (tipo Julia Roberts, o Angelina Jolie). Le cornici erano tutte di colore giallo, a parte una, quella vicina alla porta, di colore rosso. Una delle cornici gialle era scheggiata in un angolo: si scorgeva il legno chiaro incavato. Appoggiò il foglio con le domande tra le gambe, incrociò le dita appoggiando gli indici alla base del mento e si fissò negli occhi cercando di rivedere, nelle iridi, quelle del figlio che, a detta di molti, erano (o, per meglio dire, erano state) identiche alle sue. Scosse la testa e concentrò la sua attenzione sulle foto alle pareti riconoscendo tra gli altri: un calciatore famoso, due soubrette, un attore di fiction, una blogger che aveva scritto un libro e sposato un noto giornalista sportivo, un rapper e, in ultimo, un politico famoso per aver cambiato fazione in ogni legislatura nella quale era stato eletto. Sudava, si sentiva agitato. Il termostato ora segnava 21°. Si morse il labbro inferiore e afferrò da un’estremità del ripiano una bottiglia d’acqua che aveva comprato al bar. Prese una boccetta dalla tasca della giacca, ne ingoiò il contenuto e bevve appena dopo un sorso d’acqua. Dopo un po’ riprese a respirare in modo regolare. Per distrarsi, per allentare la tensione, si mise a contare le lampadine che contornavano lo specchio e rimandavano una luce cruda che metteva in risalto i difetti della sua pelle (i pori dilatati e l’epidermide lucida). Nove lampadine erano allineate sul lato destro, nove sul sinistro e otto sulla parte alta dello specchio, per un totale di ventisei lampadine. Si pentì di aver accettato quell’invito anche se, fino a quel momento, non si era sottratto a nulla, nemmeno alle ripetute e sempre uguali domande che gli avevano fatto i cronisti da quando la notizia era stata diffusa.
Fin dalla prima mattina dopo l’accaduto, le troupe delle maggiori emittenti nazionali (ma anche regionali e locali), avevano invaso l’intera via dove abitava. Avevano piazzato furgoni e camper con parabole e antenne di varie dimensioni. Disteso cavi. Posizionato fari e telecamere. E lui, fin dal suo rientro a casa, quella prima mattina, era stato bersagliato da obiettivi di ogni sorta, incalzato da voci urlanti, spinto da braccia spigolose. Ogni volta che era uscito di casa (quel giorno e nei giorni che erano seguiti), si era ritrovato decine di microfoni puntati contro e, mettendo ordine nei suoi confusi pensieri, aveva cercato di esprimere un concetto coerente su quanto era successo, anche se, mentre parlava, si chiedeva se tutto potesse essere commisurato a una spiegazione logica, se le sue stesse parole avessero un senso. Forse avrebbe dovuto fare come la moglie, che aveva preferito starsene barricata in casa, non farsi vedere, non rispondere a nessuna telefonata, non alzare mai nemmeno la cornetta del citofono, vivendo sostanzialmente come una reclusa tra la cucina e la camera da letto. Le tapparelle abbassate, la tele spenta, la sua ombra che sembra un ologramma sfocato e fragile. Ma si era detto che non era giusto, lui doveva parlare di quella cosa, se non altro per mettere a tacere le voci che ipotizzavano che il figlio fosse altrettanto colpevole di quanto era accaduto.
La prima sera, dopo che per tutta la giornata aveva risposto alle domande dei giornalisti e accolto in casa parenti e amici – un andirivieni confuso che si era protratto fino a dopo cena – quando ormai la moglie si era messa letto, lui, finalmente solo, si era seduto sul divano in sala e aveva acceso la tele su una rete che trasmetteva news ventiquattr’ore su ventiquattro. Sullo schermo al plasma si era rivisto. Aveva osservato il suo sé ripreso dalle telecamere e, dall’insieme, inevitabilmente, aveva dettagliato (come uno scanner) particolari del suo viso, e quasi non si era riconosciuto. Il naso pronunciato. L’occhio destro che sembrava asimmetrico rispetto all’occhio sinistro. I denti storti (in particolare l’incisivo sinistro che sembrava volersi allontanare da quello destro). Aveva ascoltato le sue parole e pensato che quella non fosse la sua voce. Gli era sembrata vibrante e fragile, non stentorea come altre volte. Aveva più volte biascicato. Alcune frasi gli erano sembrate prive di senso e aveva detto la parola irresponsabilità anziché la parola responsabilità rispondendo a una precisa domanda di un giornalista della seconda rete nazionale. Aveva i capelli arruffati e le sopracciglia folte. Ma più di tutto era l’espressione degli occhi che l’aveva inquietato, sembravano quelli di un folle.
***
Rimase in fissa per qualche istante su una delle lampadine laterali che emetteva una luce più debole rispetto alle altre, una pulsazione luminescente rallentata. Si sporse in avanti, appoggiò le mani sul ripiano e piegò la testa verso il basso per distendere ancora la schiena, allentare la tensione. Era da quasi una settimana che non riusciva a dormire, se non un’ora o due per notte, e la causa della sua insonnia era ciò che era seguito da quando aveva ricevuto quella telefonata: la corsa in ospedale, i medici, i carabinieri e poi, la mattina seguente, i giornalisti e tutto il resto (l’incredulità, il dolore, le ansie di ogni tipo). Era stato uno dei cronisti, un paio di giorni dopo, a mostrargli il video per la prima volta. Gli si era avvicinato con un tablet e gli aveva detto: guardi qua. Era stato estrapolato da una telecamera di sorveglianza ed era già stato diffuso in rete. E lui, davanti a quelle immagini sgranate, si era sentito venire meno. Aveva socchiuso gli occhi prima ancora che finisse, e si sarebbe accasciato al suolo se un paio di persone alle sue spalle non l’avessero sorretto.
Era ancora allungato con le braccia sul ripiano quando sentì bussare alla porta. Disse, avanti, si voltò e vide la maniglia abbassarsi e una ragazza con un borsone a tracolla farsi avanti. La ragazza era giovane, indossava dei pantaloni bianchi in cotone e una maglietta bianca con il logo della trasmissione. Avanzò muovendosi a scatti e lo salutò con una voce raschiante, come di chi è appena uscito da una brutta influenza. Appoggiò il borsone sul pavimento e prese una delle seggiole appoggiate contro la parete del camerino. Gli si sedette di fronte, gli disse, devo truccarla un po’. Lui si adagiò sullo schienale e la fissò negli occhi, di un colore tra il grigio e l’azzurro. La pelle del viso butterata, l’espressione indolente, come di chi ha perso per sempre il sorriso. Le uniche altre parole che la ragazza gli disse mentre gli passava una spugnetta sul naso furono, mi dispiace per suo figlio. In quei pochi minuti si diede da fare in un modo che a lui, che guardava di sbieco il suo sé riflesso sullo specchio, parve delicato. L’armoniosità del gesto con cui gli aveva passato il fard sulla faccia contrastava con il resto di lei che, quando finì, si rialzò muovendosi di nuovo a scatti, in un modo che palesava un certo nervosismo, o una serie di ansie represse, e uscì senza nemmeno accennare un saluto, come se si fosse dimenticata di lui nel momento stesso in cui aveva ripreso con sé il suo borsone.
L’assistente che quella stessa mattina l’aveva accolto e che gli aveva dato il foglio con le domande, lo prelevò dal camerino e lo accompagnò in un salottino dove c’erano sei divani in pelle che formavano un quadrato aperto – o un’enorme C: i divani erano disposti due per lato – posizionati di fronte a una serie di schermi dove veniva trasmessa la puntata in diretta. I divani erano occupati da tre persone sedute in ordine sparso, senza un’apparente logica. Mentre si faceva avanti scorse un uomo obeso che occupava con la sua stazza due sedute di uno dei divani laterali. Stava tossendo e parte della sua molle pappagorgia tremolava seguendo il tempo delle espettorazioni. Riconobbe su uno dei divani centrali un comico che aveva vissuto il suo momento di gloria una ventina d’anni prima e che ora sembrava visibilmente invecchiato, anche se la sua espressione ricordava esattamente la stessa che, ogni domenica sera di un tempo che a lui sembrava lontano, irrompeva con le sue smorfie sullo schermo del televisore di casa sua e gli strappava una risata, soprattutto nel momento in cui prendeva in giro questo o quel personaggio famoso e diceva: è tutta una finzione, o una minchiata, no no, è tutta una finzione. Mentre l’assistente gli stava dicendo di accomodarsi dove preferiva e che si sarebbero visti da lì a breve, scorse di spalle una donna con lunghi capelli rossi seduta sui divani laterali, di fronte all’obeso.
Prese posto sul divano centrale di fianco a quello del comico e rimase per qualche istante in fissa sulle lunghe e lisce gambe dell’unica presenza femminile, sui grossi occhiali da sole che indossava e, in ultimo, su una cicatrice che partiva dal labbro superiore e contornava parte del naso per poi sparire dietro le lenti nere. Distolse lo sguardo solo quando la donna si voltò con un movimento quasi impercettibile verso di lui e, simulando un’espressione indifferente, si mise a fissare uno degli schermi dove, in quel momento, una starlet che aveva partecipato a un reality show un paio d’anni prima e che ora presenziava come modella in lingerie a una televendita di materassi, stava raccontando del suo calvario dopo la scoperta di un tumore al seno e, contraendo le rughe della fronte, disse le parole asportazione e bombardamento, accompagnando ogni sillaba con un mezzo sorriso che a lui era parso ammiccante. Dopo una pausa studiata aveva scandito la parola chemioterapiae si era messa una mano in testa. Aveva guardato la presentatrice, le aveva sorriso, poi aveva fissato l’obiettivo della telecamera. Dopo qualche secondo di silenzio aveva detto, questa ora sono io e, sorridendo, si era tolta la parrucca bionda che indossava e aveva mostrato il cranio rasato. L’immagine successiva riprendeva la conduttrice che ostentava un’espressione di stupore e faceva di no con la testa, ripetendo allo stesso tempo la sillaba con il labiale. La sua figura sconcertata veniva messa in risalto da un filtro luccicante che le illuminava gli occhi, faceva risplendere il velo di trucco come fosse contornata da centinaia di micro stelle.
Nel momento in cui fu mandato uno stacco pubblicitario lui allungò il collo verso l’alto per lenire la tensione alla cervicale e guardò il comico che aveva le braccia distese sullo schienale e sembrava assorbito dagli schermi che in quel momento rimandavano le immagini di un auto in corsa su una strada che costeggiava una scogliera mentre una voce in sottofondo diceva: ritrova il piacere di guidare. L’uomo obeso stava guardando il telefono e agitava una gamba. Respirava in modo pesante rimandando un raglio asinino e si mordicchiava di continuo un’unghia. Un orologio digitale di fianco agli schermi segnalava che mancavano tre minuti e quindici secondi alla ripresa della trasmissione. Poco oltre scorse una serie di piante, forse ficus, che a lui, da quella distanza, parvero finte. Mentre stava cominciando il quarto spot si sentì un tramestio e da un corridoio sbucò la ragazza del tumore al seno che sorrideva come se fosse soddisfatta di qualcosa. Reggeva ancora in mano la parrucca e barcollava sui tacchi a spillo seguita da un paio di assistenti con tanto di cuffie, microfono e cartellina. Appena dietro apparve la conduttrice che sorrideva al vuoto con il telefono incollato all’orecchio.
I divani erano rivestiti di pelle nera. L’uomo obeso prese a picchiettare una mano sui cuscini e in sottofondo si sentì un sordo rumore ritmico che riverberò nell’intera area. La presentatrice salutò con un cenno la starlet con il cranio rasato e si avvicinò al comico. Era ancora al telefono e, mentre annuiva (forse a qualcosa che le veniva detto dall’altra parte), fece dei gesti al comico, che scosse la testa e le mostrò il ripetitore del microfono incastonato all’interno della giacca. Lei gli sorrise, gli fece l’occhiolino e il comico si alzò e seguì uno degli assistenti che lo condusse per lo stesso corridoio da cui era uscita la ragazza del tumore al seno. Pochi secondi dopo la faccia del comico comparve su ognuno degli schermi di fronte ai divani. Rispetto a qualche minuto prima sembrava aver cambiato espressione, assumendo (ai suoi occhi) la stessa smorfia che l’aveva contraddistinto nei suoi anni migliori, quando appariva di continuo in tele e proponeva i suoi personaggi: un sorriso smorzato che cercava consensi a ogni battuta e un occhio (il destro) rialzato e sbarrato all’inverosimile. A lui sembrò completamente diverso dall’uomo che solo qualche minuto prima era seduto sul divano al suo fianco, e pensò che, forse, una volta attraversato il corridoio che portava allo studio, si subiva una sorta di trasformazione genetica, una trasmutazione fisica e mentale.
Il comico raccontò degli anni difficili che aveva vissuto da quando le comparsate televisive si erano diradate e la presenza di spettatori nei teatri era calata. Il suo nome anno dopo anno era stato dimenticato, il suo agente l’aveva abbandonato dopo avergli sottratto buona parte delle spettanze e lui, che non aveva mai lavorato in vita sua, ovvero non si era mai abbassato a prendere in considerazione – nemmeno per un breve periodo – un lavoro cosiddetto normale (queste le parole che pronunciò con la sua corretta dizione di fronte alle telecamere), era ormai ridotto alla fame, così aveva detto, e dopo quella conclusione che sapeva di sentenza, erano state mandate in onda delle immagini eloquenti: lui immobile di fronte alla portiera aperta della sua auto mentre mostrava il sedile abbassato dov’era disteso una sacco a pelo con di fianco due zaini e un cuscino (la sua voce tremolante in sottofondo diceva: questa è la mia nuova casa). Altre immagini lo mostravano nella toilette di un bar con uno spazzolino in mano. Oppure in fila di fronte a una mensa per indigenti. Terminata la carrellata di foto l’inquadratura si era soffermata sulla conduttrice che scuoteva la testa, ripiegava le labbra e si passava il dorso delle mani sugli occhi come per asciugarsi le lacrime. Il comico disse che aveva sofferto la fame, il mal di denti (senza potersi permettere le cure di un dentista) e, nelle ultime settimane, la gotta. E dopo aver detto quella parola si era piegato in avanti, aveva alzato i pantaloni e abbassato i calzini mostrando le caviglie gonfie mentre l’obiettivo della telecamera seguiva ogni suo movimento, mostrando ogni particolare, anche il suo sguardo imperturbabile, qualche secondo dopo, che guardava fisso in camera senza accennare il sorriso né mostrare la smorfia che da sempre lo contraddistinguevano.
Mentre ancora il comico raccontava la sua storia, uno degli assistenti si avvicinò all’uomo obeso e non senza difficoltà gli attaccò il ricevitore del microfono con del nastro adesivo alla schiena e gli disse che dopo sarebbe toccato a lui. L’uomo annuì con un raglio e tossì senza coprirsi la bocca e l’assistente si scostò voltandosi, mostrando a lui e alla donna un’espressione di disgusto. Durante la pausa pubblicitaria due ragazzi robusti che indossavano una tuta arancione si fecero avanti con una grossa sedia a rotelle e aiutarono l’uomo obeso a sollevarsi dal divano e sistemarsi sulla sedia. In quel momento il comico e la presentatrice stavano uscendo dallo studio parlottando. Lui si produceva nelle sue strambe espressioni facciali e agitava le mani e lei rideva a ogni sua battuta mostrando la sua perfetta arcata dentale che riempiva lo schermo e sembrava avere il potere penetrare i recessi neuronali degli spettatori, ammaliandoli.
La voce dell’uomo obeso era profonda e allo stesso tempo stridula. Era una dissonanza stonata, come se lui non fosse in grado di controllarne le variabili tonali. Il faccione occupava tre quarti dello schermo. Nell’insieme sembrava una maschera floscia. L’uomo parlò della sua vita di tutti i giorni, della sua difficoltà nell’affrontare qualsiasi cosa, della sua perenne immobilità su un divano quattro metri per due fatto costruire apposta da un artigiano, della sua continua fame e della sua necessità di rifocillarsi a ogni ora del giorno e della notte. Dopo qualche minuto di quell’indolente monologo fu trasmesso un video che riprendeva l’uomo nella sua abitazione in frangenti diversi: mentre veniva lavato (aiutato da un paio di familiari, ovvero la madre e la sorella), vestito, pettinato, poi nella situazione seduto/sdraiato (sul divano) con un vassoio pieno di cibo appoggiato sulle gambe. Finito il video l’uomo riprese a parlare delle continue difficoltà insite in quella condizione che lui sapeva essere paradossale (con voce stridula aveva detto, ne sono consapevole). Nonostante le numerose diete, gli psicoterapeuti, gli psichiatri, i nutrizionisti, ogni tipo di intervento medico (persino uno chirurgico), lui si ritrovava ancora a pesare più di duecento chili. L’ultima cosa che disse prima che l’inquadratura tornasse sulla presentatrice fu: io praticamente non ho mai avuto amici, non ne ho mai avuti e, a parte quello, sono ben conscio del fatto che nella mia vita non avrò mai occasione di amare o di essere amato da una donna, è forse un’esistenza degna di essere vissuta questa?
La donna con gli occhiali scuri aveva una silhouette da modella. Quando si alzò dal divano lui le guardò ancora le gambe (di sbieco, cercando di non farsi scorgere) e il vestito, un miniabito che la fasciava come fosse una seconda pelle. Ma era il suo modo di camminare che adesso aveva attirato la sua attenzione. Si muoveva come se sfiorasse il pavimento: la schiena dritta e le braccia distese lungo i fianchi e il collo magro e tirato che sembrava sollevarla verso altezze infinite. Le cicatrici le poté osservare meglio quando il primo piano della donna fu ripreso dalle telecamere. Era l’unica persona rimasta in quel salottino d’attesa. Sopra di lui c’erano tralicci e fili penzolanti. Alle sue spalle uno spazio ampio, disadorno, dove due tecnici in un angolo stavano armeggiando su una telecamera. Cambiò divano. Si adagiò su uno di quelli laterali, avvicinandosi agli schermi. Cercò di guardare in modo più dettagliato ciò che prima gli era sfuggito nelle occhiate fugaci. La donna parlava con difficoltà perché la cicatrice più evidente le solcava il labbro superiore. Il suo eloquio era claudicante e ogni frase sembrava costarle fatica. Mentre cercava di esprimere concetti, di raccontare la sua storia, la presentatrice interveniva completando per lei le frasi, sovrapponendosi quando lei balbettava su questa o quella parola. Nel momento in cui disse che una decina d’anni prima era stata finalista a Miss Italia e che per qualche tempo aveva lavorato come modella, portò le mani al viso e si sistemò gli occhiali. Una lacrima comparve dalla base di una lente, le solcò la cicatrice, scintillò per qualche istante illuminata dalle luci dello studio. La presentatrice disse, abbiamo un video che ci racconta un po’ di te. Sugli schermi fu mandato un video collage (con in sottofondo, Girl you’ll be a woman soon, nella versione degli Urge Overkill) dove veniva mostrata la donna in costume, con una fascia trasversale, al concorso di Miss Italia. Poi la stessa modella che presenziava a eventi diversi. Che camminava su passerelle. Che faceva la testimonial di uno spazzolino da denti. La sua breve carriera si era interrotta quando aveva conosciuto un uomo ricco che si era innamorato di lei e che, sin dai primi mesi del loro rapporto, si era dimostrato estremamente geloso, tanto da impedirle di partecipare a sfilate e a eventi, perché, secondo il suo parere, non aveva alcuna necessità di lavorare, visto che, nel loro ménage, il problema economico non sussisteva.
Fu nel momento in cui la donna prese a parlare dei cambiamenti umorali dell’uomo che alla fine aveva sposato (perché, a parte il carattere, era un uomo affascinante, in certi momenti generoso e pieno di premure) che il tecnico dei microfoni gli si presentò davanti chiedendogli dove preferisse mettere il ripetitore. Lui, senza esitazione, mostrò la tasca interna della giacca. La donna intanto, in primo piano sullo schermo, disse: violenza fisica e verbale. Lui guardò il labbro deturpato della ex partecipante a Miss Italia poi abbassò lo sguardo sul led rosso del ripetitore. Rilesse le domande che gli sarebbero toccate e quando voltò lo sguardo verso lo schermo vide altre lacrime solcare la pelle cicatrizzata della donna che, con le labbra che le tremavano, disse: si è comportato come una bestia come un a-a-ani-ani… La sua voce incerta fu coperta da quella della presentatrice che disse la parola animale. Che cosa farebbe se dovesse trovarsi davanti quei ragazzi? Adesso aveva lo sguardo puntato sull’ultima domanda, l’unica per la quale non era ancora riuscito a ipotizzare una qualsivoglia risposta. La voce della donna intanto singhiozzava mentre diceva: mi ha legata a una sedia e mi ha schiaffeggiata per venti minuti. Lui piegò il foglio, lo infilò nella tasca della giacca, lesse gli ultimi messaggi sul telefono poi lo spense e allungò ancora le braccia in avanti per distendere la schiena. Quando si voltò verso gli schermi vide di nuovo in primo piano le labbra della donna tremolare mentre diceva: mi ha aspettato nascosto dietro un albero mentre correvo nel parco e aveva in mano un fla-fla-fla… La presentatrice disse la parola: flacone. La ragazza, annuì, pronunciò biascicandola la parola acido, e con un gesto lento (che sembrava studiato) si tolse gli occhiali e mostrò il suo viso sfigurato. In dissolvenza incrociata il controcampo inquadrò il viso turbato della presentatrice che scuoteva la testa e aveva la bocca aperta come se non credesse a quello che stava vedendo.
***
Lo studio era più piccolo rispetto a come se l’era immaginato. Si sentiva teso. Sudava sia per l’ansia di quanto si apprestava a vivere, sia per i fari puntati contro: luci gialle e calde che rimandavano una luminescenza ovattata. Cercò con lo sguardo i bocchettoni dell’aria condizionata e tentò di regolarizzare il respiro, anche se gli riusciva difficile. Il posto della presentatrice era ancora vuoto. Tre telecamere fisse erano puntate sulla loro postazione. Una serie di monitor contornavano l’intero spazio. Poco oltre, nell’ombra, scorse il pubblico. Qualcuno era in piedi e parlottava, altri erano seduti e aspettavano che il blocco pubblicitario terminasse. Socchiuse gli occhi e ripassò per l’ennesima volta le risposte che aveva pensato di dare, concentrandosi anche sulla dizione e sulla scansione di ogni parola. L’assistente che l’aveva accolto quella mattina (che poi era la stessa persona che l’aveva contattato per partecipare alla trasmissione e che con lui aveva preso ogni accordo), l’aveva tranquillizzato fin dal primo momento, fin da quando aveva fatto il suo ingresso negli studi. Nel bar, mentre bevevano un caffè e mangiavano una brioche, avevano parlato del più e del meno, finché lui (un tizio sui trentacinque con gli occhi vivaci e lo sguardo intelligente) gli aveva mostrato la lista delle domande, mettendolo al corrente sui tempi tecnici di ogni risposta, dicendogli che dopo la terza domanda sarebbe partito il video. Finita la colazione era stato condotto per un dedalo di corridoi illuminati da luci di un blu elettrico, con l’assistente che indicava gli ingressi dei diversi studi dove venivano registrate trasmissioni i cui nomi gli erano familiari. Si erano fermati davanti a una porta e l’assistente, mentre bussava, gli aveva detto, questo è il suo ufficio. Si erano fatti avanti in un locale illuminato a giorno da una grossa lampada alogena, con un tavolo di vetro nero al centro dietro al quale c’era seduta la conduttrice ancora struccata e con i capelli raccolti in una coda. Nel momento in cui era riuscito a inquadrarla, lui aveva pensato che quella non era la vera lei, non era la stessa persona che appariva tutte le settimane in televisione, ma una sessantenne qualunque in sovrappeso e con le rughe intorno agli occhi e alla bocca. Praticamente l’aveva riconosciuta solo dalla voce nel momento in cui, rivolgendogli un’occhiata fugace, gli aveva detto: mi dispiace per suo figlio.
Si vide riflesso su un monitor. D’istinto portò una mano ai capelli e cercò di dare un ultimo ritocco alla sua pettinatura scompigliata che quella mattina aveva cercato di sistemare con spazzola e fon (senza ottenere grandi risultati). Sentì un calpestio e voci concitate, uno degli assistenti urlare, trenta secondi! Le persone tra il pubblico che erano in piedi si sedettero e un tizio sotto le tribune, con una cartelletta in mano, agitò le braccia e urlò: siete pronti?, ci siamo? Vide la presentatrice prendere posto, accavallare le gambe e tirarsi appena giù la gonna e pensò che un buon trucco, un abito cucito su misura da un famoso stilista e delle scarpe con il tacco potevano esaltare qualunque forma. Si chiese se anche lui, come gli ospiti che l’avevano preceduto, avesse subito la medesima trasformazione dopo aver attraversato il corridoio dalle quinte allo studio. La stessa voce di prima urlò, dieci secondi! Qualcuno tra il pubblico, aizzato dall’animatore sotto le tribune, accennò un count down. Al tre di quel conto alla rovescia improvvisato, l’animatore comandò gli applausi e su tutti i monitor di fianco alla postazione comparve la faccia della presentatrice che mostrava il suo sorriso perfetto che tutti ammaliava.
Credette di rispondere bene alle prime tre domande anche se non sapeva esattamente cos’aveva detto, era come se le parole gli fossero scivolate via, fossero uscite da lui per non farvi più ritorno. Aveva la bocca impastata, la salivazione azzerata. Si passò le mani sudate sui pantaloni. Fissò a lungo la presentatrice negli occhi ma solo perché aveva bisogno di un punto fermo sul quale far convergere la propria concentrazione. Si sentiva solo e perduto in una dimensione parallela, uno strano mondo del quale non conosceva le regole. Mentre guardava le espressioni cangianti sul volto della donna man mano che lui scandiva il suo monologo, si chiese se davvero lei provasse empatia per lui e per tutte le persone che l’avevano preceduto in quella puntata e in tutte le puntate passate, oppure se quel suo modo di atteggiarsi fosse un trucco, una mimica studiata ad arte per dirigere a suo piacimento gli umori e le emozioni dei numerosi spettatori che garantivano uno share del 23,4% in quella fascia oraria (e di conseguenza introiti cospicui dagli inserzionisti pubblicitari). Nell’obnubilata atmosfera in cui vagheggiava la sua mente sentì a un certo punto la parola video e si voltò verso un monitor sentendosi avvampare al centro del petto e rimanendo per qualche secondo in apnea. Erano state le immagini di quel video, ma soprattutto i commenti che ne erano seguiti, che l’avevano convinto a partecipare a quella trasmissione.
Il video era stato ripreso dalla telecamera fissa di una banca posizionata su un tratto di strada dirimpetto un locale affollato da giovani della zona. Riprendeva il momento in cui il figlio, a bordo della sua utilitaria, metteva la freccia per parcheggiare. Poco prima che svoltasse veniva anticipato da un auto che proveniva dal senso inverso, un SUV nero, che gli rubava il posto. Il video segnava (in basso sulla destra) le 22:33 del 12/04/2017 quando il figlio era sceso dall’utilitaria agitando le braccia. Qualche secondo dopo due tizi corpulenti erano scesi dal SUV ed erano andati incontro al ragazzo con le mani sui fianchi. Il figlio continuava a sbracciarsi e a urlare. Uno dei due ragazzi del SUV, quello che era stato alla guida del mezzo, aveva fatto partire un destro, e il figlio era indietreggiato coprendosi la faccia con le mani. Ma appena dopo aveva cercato di controbattere. Aveva allungato un braccio e tirato un diretto, colpendo di rimando il ragazzo che l’aveva percosso. L’altra figura che, nella prima parte dell’alterco se n’era rimasta in disparte (e in ombra nel video), gli aveva tirato un calcio in pancia. Il figlio si era inginocchiato sull’asfalto dopo quel colpo. Sembrava inebetito dal dolore. Alle 22:36 i due si erano avventati sul corpo del ragazzo con una sequela violenta di colpi (calci e pugni a ripetizione). Si vedeva il figlio sballottato come un fantoccio sull’asfalto. I due continuare a tramortirlo senza sosta. Era stato l’arrivo di un gruppo di persone (alcuni ragazzi che sostavano fuori dal locale) a far risalire i due aggressori sul SUV e a scappare.
In pochi giorni il video aveva superato dodici milioni di visualizzazioni e ne erano seguiti commenti di ogni genere che lui, il padre, aveva fatto l’errore di leggere. Molti prendevano le difese del ragazzo, mentre altri, un numero altrettanto cospicuo, scrivevano che se l’era andata a cercare, che era stato lui a provocare i due. Erano stati quei commenti (che l’avevano destabilizzato più della stessa morte del figlio) che l’avevano convinto a partecipare alla trasmissione. La sua intenzione era quella di tenere alto l’onore del suo primogenito, voleva che tutti sapessero quale persona buona fosse: un ragazzo educato, che non aveva mai fatto del male a nessuno, era stato uno scout, aveva fatto il volontario in un ospizio e in un centro per disabili. Tutte queste cose avrebbe voluto dire, anche se, dopo aver rivisto il video, e sui monitor adesso veniva mostrata la sua espressione assente, non sapeva più in realtà cosa pensare, anzi, in quel momento era come se non ricordasse nemmeno la faccia di suo figlio, la sua voce. Se si concentrava ricordava esattamente cosa stava facendo mentre gli era arrivata la telefonata da parte dei carabinieri (era a letto e stava leggendo notizie sportive sul tablet), ma non ricordava cosa si erano detti lui e il ragazzo quella stessa sera prima che lui uscisse di casa per andare a incontrare degli amici in quel locale. Quella sera avevano cenato assieme lui, la moglie, il figlio, la figlia minore, ma non ricordava di cosa avevano parlato a tavola, non ricordava nemmeno cosa avevano mangiato, era come se fosse calata una nebbia fitta nella sua memoria.
Sentì la voce della presentatrice accennare qualcosa, ma non riuscì a capire cosa stesse dicendo. Le parole della donna sembravano lontane e stridenti, come un suono disturbante. Gli tremavano le mani. Ansimava. Sudava. Cercò di rispondere, ma gli uscì solo un verso sfrigolante. Aveva sete. Forse con un bicchiere d’acqua si sarebbe ripreso. Ma non chiese dell’acqua. Si rese conto di non essere più in grado di parlare. Slacciò il primo bottone della camicia e si alzò dalla poltrona. Sentì ancora un suono ronzante provenire dalla postazione di fronte e scosse la testa. Vide l’assistente che l’aveva accolto fargli segno di star seduto, ma lui fece di no con la testa e scorse la sua faccia in preda al panico su ognuno dei monitor intorno. Avrebbe voluto urlare, ma aveva la gola occlusa. Slacciò un altro bottone della camicia e a testa bassa si allontanò dallo studio. Mentre imboccava il corridoio si sentì strattonare e afferrare da un uomo alto e grosso, ma riuscì a liberarsi dalla presa e proseguì oltre. Accelerò il passo per quel dedalo di corridoi finché intravide una porta coi maniglioni antipanico. Corse in quella direzione. Abbassò la maniglia, spinse la porta e si ritrovò fuori. Sentiva alle spalle qualcuno urlare il suo nome. Ma non si voltò. Corse fino alla macchina. Infilò le chiavi. Fece manovra. Partì sgommando. Il portinaio della guardiola gli aprì la sbarra a un suo colpo di clacson. Percorse un chilometro svoltando in strade che non conosceva. A un crocevia che portava in una zona industriale imboccò una via a destra. Costeggiò una serie di capannoni e si fermò in fondo a una strada chiusa che terminava in un campo abbandonato. Diede due pugni sul volante, abbassò la testa e proruppe in un pianto disperato. Rimase con la fronte appoggiata sullo sterzo per una decina di minuti. Quando riprese a respirare in modo regolare fece forza sulle braccia e si rialzò. Osservò le sterpaglie davanti. Dei rifiuti ammucchiati in uno spiazzo. Prese il telefono e fece scorrere alcune foto e video finché trovò quello che cercava. Era un filmato di qualche mese prima, quando lui aveva comprato quel telefono e aveva chiesto al figlio come si utilizzasse la videocamera. Premette il play. Sul video si vedeva lui che, rivolto all’obiettivo, diceva, allora?, funziona? In sottofondo la voce del ragazzo gli aveva risposto, sì, vuoi provare? Si vedeva lui avanzare verso l’obiettivo, prendere in mano il telefono e inquadrare il figlio, che lo stava salutando con una mano e gli stava dicendo, ciao pa’.

Placido Di Stefano (1970) ha conseguito il post-diploma di scrittura drammaturgica presso la civica scuola d’arte drammatica “Paolo Grassi” di Milano nel 1998. Ha vinto ed è stato selezionato in diversi concorsi letterari tra cui: la Biennale Giovani Artisti di Torino, il Premio Loria (Il Sottosuolo – ed. Diabasis), Subway Letteratura (quest’ultimo con lo pseudonimo Dino Campari), il Progetto Zeno. Ha pubblicato racconti su riviste di letteratura e antologie. Ha pubblicato il suo primo romanzo “Amami (Love me two times)” – finalista al premio Calvino nel 2004 e finalista al premio Carver nel 2008 – con la casa ed. peQuod di Ancona (2007). A febbraio 2015 la casa ed. Italic – peQuod ha pubblicato il suo secondo romanzo dal titolo “L’antibagno”, finalista al premio Nabokov 2015 e al premio Zeno 2018. Nel settembre 2018 il romanzo inedito “Appunti dal Mondo Occidentale”, è stato selezionato al premio “Città di Como”.