La signora degli elefanti
Quello era un posto in cui non si doveva andare, la mamma lo aveva detto forte e chiaro.
“E invece tu ci sei andato di nuovo! “sbottò urtando la pentola con il mestolo.
Tirava una brutta aria pensai, gli occhi fissi sulla manciata sparuta di stelline, annegate in un mare di brodo che, ero certo, avesse cucinato per dispetto.
Mio fratello Giovanni, imperturbabile, tuffava il cucchiaio nella minestra e lo portava alla bocca, più vuoto che pieno, senza dire una parola che a quelle tanto ci stava già pensando la mamma.
“Non dici niente? Te ne stai zitto a mangiare?” lo punzecchiò, rigirando il forchettone nel pollo bollito che nessuno osava toccare.
Io, testa china sul piatto, lo imitavo. Cercavo di finire il più in fretta possibile per correre in camera e levarmi di torno. Da lì potevo sentire tutto lo stesso: a casa nostra i muri, come diceva mamma, sembravano fatti di sottilette come quelle che metteva sopra i cannelloni ma solo una domenica sì e una no, perché se no prendevamo il vizio.
Questa cosa del vizio, io non l’avevo capita più di tanto, ma saltò fuori anche quella sera con gli animi che si scaldavano e la minestra che si freddava.
“T’avevo detto di non andare, ma te ne sei fregato!” la rabbia di mamma venne amplificata dal cozzare dei piatti che stava ritirando prima del tempo “Non mi dai retta mai, mai!” le stoviglie annegarono nel lavello, un liquido denso galleggiò nell’acqua saponata.
Giovanni prese una mela dal centrotavola sul buffet, la frutta finta mescolata a quella vera, per farlo sembrare pieno.
“Li so io i sacrifici che sto facendo per tirarvi su” continuò mia madre grattando il fondo di una padella “Ma tu niente, non mi vuoi ascoltare!”
“E dai mà, che stai facendo il finimondo per niente”. Giovanni aveva iniziato a sbucciare la mela, in quel modo tutto suo che aveva imparato crescendo, quando i coltelli, come tante altre cose, non fanno più paura. “Io in quel posto non ci sono stato” dichiarò.
Io fissavo ipnotizzato la coda gialla che penzolava dalla sua mela e ci appendevo sopra desideri arruffati come i miei capelli: se non si spezza sabato gli Under 8, al campetto, li facciamo neri; se non si spezza domani la maestra sarà assente; se non si spezza adesso divento un supereroe.
Con l’incedere della lama sul frutto aumentavo la posta in gioco e riducevo i tempi di attesa.
Un po’ come mia madre che ora aveva messo i piatti nello sgocciolatoio ed era tornata alla carica.
“Giovà tu a me non mi devi prendere per fessa, hai capito?” si sfilò i guanti di gomma e li lanciò sul tavolo in segno di sfida. “La Signora Carmela ti ha visto” rivelò.
“Eh, cosa vuoi che abbia visto. Quella ha sul naso i fondi di bottiglia e nella bocca la lingua troppo lunga” il primo spicchio di mela che scricchiolò tra i denti di mio fratello come la verità.
“Giovà, io non te lo ripeto più. Se me lo vengono a dire un’altra volta ti faccio fare la fine di tuo padre. E così ‘sta storia la finiamo.” Poi si voltò verso di me “E vale pure per te Tonino, chiaro?”
In verità io non avevo capito un bel niente se non che il giochetto della buccia non funzionava: era finita nel piatto tutta intera come speravo io ma al posto dei superpoteri avevo addosso solo gli occhi furenti di mia madre. “Che quella dice che stavi pure tu.” e mi scrollò insieme alle briciole della tovaglia “Se sai qualcosa me lo devi dire, hai capito?”
Io stavo muto e immobile come quando giocavo all’Orologio di Milano in cortile, che se fiatavo poi mi toccava far la penitenza. Tenevo le labbra incollate, le parole che mi puntellavano la lingua per saltar fuori. Ma io non volevo e così le buttavo giù con un bicchiere d’acqua intero per non farle sentire a nessuno.
Giovanni mi aveva fatto giurare.
Un giuramento vero, da uomini, croce sul cuore e mani bene in vista. Niente a che vedere con quelli che facevamo tra compagni con le dita incrociate dietro la schiena.
Si era passato le dita sulla barba rada, che non si faceva mai perché da quando gli era spuntata tutte le femmine gli ronzavano intorno, e le aveva appoggiate sulla mia guancia, liberando una carezza ruvida con la sua ultima raccomandazione.
“Tonì, io ti porto ma vedi che mamma non lo deve sapere eh?”
Io avevo annuito, spalle dritte, piedi uniti e mano a parasole sulla fronte, come avevo visto fare ai soldati nei film.
“Bravo ragazzo” mi aveva dato una pacca sulla spalla e ci eravamo avviati.
Un passo da gigante lui, dieci da formica io.
Il tragitto non era semplice ma io cercavo di memorizzare qualche dettaglio, con la speranza segreta di poter tornare: superare il muro imbrattato, girare a sinistra, scansare i cestini divelti, girare a destra, superare la piazza con le cacche di piccioni, girare di nuovo a destra e poi tirare dritto fino a raggiungere le fioriere con le primule strappate a metà.
Lì c’era l’insegna con due lettere a testa in giù. Quelle in piedi penzolavano in bilico, già rassegnate a fare la stessa fine.
Il posto era quello.
“Sei agitato eh Tonì?” mi strizzò l’occhio Giovanni vedendo che saltellavo come un grillo.
In realtà mi scappava la pipì che stavo cercando di trattenere in tutti i modi: non potevo certo farmela addosso in un momento come quello.
Stavo finalmente per incontrare La Signora degli Elefanti.
La notizia girava in paese da un bel po’ anche nella piazzetta non era comparso alcun tendone a righe rosse e bianche e, all’uscita di scuola, non si era vista nemmeno l’ombra di un nano a distribuire biglietti omaggio, come accadeva di solito.
Le settimane passavano e quella storia girava di bocca in bocca, fermandosi un po’ più a lungo su quelle pettegole. A noi bambini arrivava solo a spizzichi e bocconi di quelli che ti mettono più fame di prima.
Un giorno, divorato dalla curiosità, ero andato dalla mamma a chiedere spiegazioni.
Lei, curva sulla vasca da bagno, strofinava sapone di Marsiglia sui panni, dondolandoli su e giù dalla bacinella.
“Mamma ma tu lo sai dove sta la Signora degli Elefanti?” le avevo domandato.
Il sapone lentamente era scivolato nell’ammollo e le mani lungo i fianchi. Si era girata verso di me, gli occhi piccoli che mi pungevano addosso come gli spilli quando mi faceva l’orlo ai pantaloni.
“Tonì, ma dimmi un po’… A te chi che te l’ha messa in testa questa storia?” mi prese le guance con due dita rimbalzando la mia domanda con la sua.
“I compagni di scuola.” confessai, l’odore aspro del sapone che mi grattava le narici. “Ne parlano tutti”.
“E tu non li ascoltare Tonì ” scosse la testa e riprese a fare il bucato “E vai a studiare che a quello devi pensare, no alle chiacchiere!”
Ma come tutte le cose che non ci venivano mai spiegate, quel piccolo mistero divenne il nostro argomento preferito; seduti sui gradini della cantina, protetti dal buio, ci scambiavano segreti e mozziconi di liquerizia:
“Mio fratello c’è stato. Dice che là dentro elefanti non ce ne sono. Però gli piace uguale”
“Il mio ha detto che se faccio il bravo, quando cresco un po’, mi ci porta”
“Beato te, io ci ho solo una sorella piccola, pure scassacazzi!”
“Scusate, ma se non ci sono gli elefanti, che circo è?”
Parlavamo sottovoce per non farci scoprire perché quello non era un posto per bambini.
Una volta mio fratello Giovanni era sceso in cantina per prendersi una bottiglia di rosso, da bere con gli amici, e ci aveva colti sul fatto. Ma al posto di rimproverarmi si era fatto una bella risata.
La sera stessa però, appena mamma era andata a cucire dalla vicina, aveva messo un cuscino sotto le coperte e prima di svignarsela mi aveva promesso che dalla Signora degli Elefanti mi ci avrebbe portato lui. Presto, molto presto.
E finalmente quel giorno era arrivato.
Giovanni spinse la maniglia scura ed entrammo.
Sentii la porta richiudersi alle mie spalle con un piccolo tonfo. Mi guardai intorno, stordito da zaffate di fumo e caffè, ma a parte un labirinto di gambe più lunghe delle mie, non vedevo altro. Continuavo a sbattere il naso dappertutto come se, là dentro, una proboscide mi fosse spuntata davvero.
Finalmente le mani forti di mio fratello mi sollevarono sulla cima di un trespolo e restai appollaiato lì, le gambe ciondolanti nel vuoto e il collo che girava dappertutto.
Ero deluso: non c’era nemmeno l’ombra di un elefante.
Poi la vidi.
Comparve da una tenda a listarelle di plastica, i capelli neri e sottili che le accarezzavano i fianchi burrosi, un piccolo neo sulla bocca rossa, invitante come le caramelle di gelatina nei sacchetti trasparenti.
Non si accorse di me, era troppo indaffarata con i clienti, che sgomitavano per contendersi le attenzioni che lei distribuiva accompagnandole con quartini di bianco e rosso.
A volte spruzzava nei bicchieri un liquido trasparente che aveva lo stesso odore del disinfettante che usava mamma quando mi sbucciavo le ginocchia.
Era un circo piuttosto strano pensai, ben diverso da quello che avevo visto sotto al tendone a righe in piazzetta. Ma, a guardar bene, era pur sempre uno spettacolo curioso: c’erano i pagliacci, la faccia rossa di pomodoro, chini su tavoli di plastica a far scarpetta con il pane; i giocolieri che si cacciavano in bocca i panini a due a due sperando di pagarne uno soltanto; gli uomini volanti che entravano dalla porta principale ne cercavano subito un’altra, in fondo al corridoio.
La Signora degli Elefanti però quella porta la teneva chiusa a chiave e la chiave la custodiva nella tasca del grembiule: la consegnava solo quando decideva lei, e comunque non prima di avergli servito almeno un caffè.
Poi c’erano i contorsionisti, incuneati in uno stanzino, nascosto da una ciniglia sporca come le parole che ogni tanto da lì schizzavano fuori.
Mio fratello seduto in un tavolino zoppo, fumava una sigaretta, scambiando ogni tanto qualche parola con un tizio dalla faccia rotonda e rosa, come il giornale che stava leggendo.
“Giovanni ma che succede là dentro?”
“Eh Tonì là dentro è meglio che non ci vai.” la risposta arrivò in un soffio di nicotina, altrettanto fumosa “Che poi mi diventi come quel povero diavolo lì” sollevò il mento in direzione di un tipo basso con una giacca troppo grande e le dita nervose su una banconota.
L’uomo dalla faccia tonda annuì prese una penna legata con uno spago e iniziò a metter crocette su una scheda con la scritta Totocalcio. Poi si rivolse alla Signora “Che dici, tu che sei di là, al Bologna ci metto la vittoria o il pareggio?” domandò a voce alta.
“La vittoria Mario, sempre la vittoria ci devi mettere. Che a noi, giocare per perdere mica ci piace” la sua voce aveva un timbro soffice di tortellini.
D’istinto mi ritrovai a sorriderle e lei se ne accorse: i nostri sguardi si incontrarono così in mezzo a un girotondo di quartini, rigatoni al sugo, acquaviti e caffè più o meno corretti.
“Ma guarda che oggi ci abbiamo anche un signorino” parlava con un accento diverso dal nostro, con la esse arrotolata che ti scivolava addosso, morbida e carezzevole.
“Lo vuoi un bel lecca lecca?” Estrasse dal bancone una latta a strisce arcobaleno.
“Che fai stai impalato Tonì? Su, vai” mi incoraggiò Giovanni, scordando lo sgabello troppo alto su cui stavo seduto.
“Ma stai buono là piccoletto, che adesso vengo io da te. Tuo fratello mica l’ha capito che sei ancora troppo piccolo per volare” la sua risata fresca scintillò sulla carta di caramelle.
Lasciò il bancone e venne verso di me “Allora quale vuoi?” Si chinò mostrandomi il barattolo colmo di dolcetti, generosa come la sua scollatura. Io restai fermo, la mano tremolante sopra tutto quel ben di Dio.
Mi diede un buffetto sulla guancia incandescente: le sue dita profumavano di zucchero filato e ragù. A me piacevano entrambi. Poi si voltò verso mio fratello. “E tu non la giochi la schedina?”
Lui teneva stretta una sigaretta che stava per finire, indeciso se tirare un’ultima boccata o gettarla via. “Io gioco solo per vincere” si pavoneggiò, la camicia bianca della domenica che si era messo pure se era giovedì.
La Signora degli Elefanti gli sorrise ma in modo diverso da come aveva fatto con me.
Abbandonò tra le mie braccia i dolciumi e sussurrò qualcosa all’orecchio di Giovanni, i capelli di seta sul collo inamidato della camicia, la mano sulle labbra per proteggere le parole.
Lui annuì e, un istante dopo, le dita di lei scivolarono nella tasca del grembiule e poi in quella di Giovanni.
Io fissavo la cenere del mozzicone che ormai sfiorava le dita di Giovanni, ma lui sembrava non accorgersene.
Qualcuno dal bancone chiamò La Signora e lei tornò là, dove doveva stare.
Mio fratello si alzò “Dai Tonì, andiamo. Che se no poi mamma ci fa il terzo grado.”
Mi cinse i fianchi e tornai con i piedi per terra.
Uscimmo e ci incamminammo verso casa.
Le mani in tasca per custodire qualcosa di più grande di noi.
Un passo da gigante lui, dieci da formica io.
Inconsapevoli della signora Carmela che, stretta in un cappotto prezzemolo, ci stava fissando dall’altra parte della strada.

Monica Coppola, nata nel 1974 a Torino, ha pubblicato il romanzo “Viola, vertigini e vaniglia” (BookSalad, 2015), “La misura imperfetta del tempo” (Las Vegas edizioni, 2019) e ha curato l’antologia “Dai un morso chi vuoi tu” (BookSalad, 2016). Ha scritto racconti per “La Repubblica – L’Espresso” e “Carie“, e collaborato con il blog “Vanity Fair“. Si occupa di marketing e formazione.