La Homeland di Jane Austen
Circolano tra luoghi conosciuti, è con dolore che si azzardano oltre, i personaggi della narrazione di Jane Austen. La sua homeland, il suo paesaggio interiore, traspaiono nella lettura di Franco Moretti come non ci si aspetterebbe, collocati tra i confini ristretti della percezione della scrittrice inglese: dove il Regno Unito nella sua interezza quasi non esiste; dove la Rivoluzione Industriale è un evento troppo destabilizzante per essere concepito e, ancor di più, narrato.
Cominciamo con una carta di libri famosi: la figura 1, che indica i luoghi dove iniziano e finiscono i romanzi di Jane Austen. L’abbazia di Northanger, ad esempio, comincia a Fullerton, e si conclude a Woodston; Senno e sensibilità, a Norland Park e a Delaford; e così via per tutti gli altri (tranne Persuasione, che non è chiaro dove finisca). Per favore, dedicate qualche attimo a questa figura, perché alla fin fine la geografia letteraria è tutta qui: si sceglie un aspetto del testo (qui: l’inizio e il finale), si cercano i dati, li si mette nero su bianco – e poi li si guarda. Nella speranza che la carta sia più della somma delle sue singole parti: che ne emerga un disegno, un pattern, che aggiunga qualcosa a quel che già si sapeva in partenza.
E un disegno emerge, qui: fatto di esclusioni, innanzitutto. Niente Irlanda; niente Scozia; niente Galles; niente Cornovaglia. Niente «periferia celtica», come l’ha chiamata Michael Hechter[1];solo l’Inghilterra: uno spazio ben più piccolo del Regno Unito. E poi, neanche tutta l’Inghilterra: manca il Lancashire, il Nord – la rivoluzione industriale. È un’Inghilterra più antica, questa, centrata sulla grande proprietà agricola: un’Inghilterra di tenute e parchi e country houses, già celebrata per generazioni dagli «estate poems» della tradizione topografica (fig. 2). È un primo esempio di quel che può farci vedere la geografia letteraria, due cose insieme: quello che potrebbe trovarsi in un romanzo – e quello che poi effettivamente c’è. Da un lato, la «Gran» Bretagna che ha annesso le regioni limitrofe, e si è messa sulla via della produzione industriale: dall’altro, la piccola, omogenea Inghilterra rurale dei romanzi di Austen.
Un’Inghilterra più piccola del Regno Unito; e piccola per noi, oggi. Ma un po’ meno al tempo di Austen, quando i luoghi indicati sulla carta erano separati da un giorno, e a volte due, di assai malagevole viaggio. E poiché questi luoghi coincidono con la casa dell’eroina (l’inizio) e del suo promesso sposo (il finale), la loro distanza ci dice che l’intreccio di Austen congiunge – fa «sposare» – persone che appartengono a contee diverse.
Cosa nuova, e significativa: perché suggerisce che Austen sta cercando di rappresentare quel che gli storici dell’Inghilterra moderna son soliti chiamare «National Marriage Market». Mercato nazionale del matrimonio: un meccanismo che prende forma nel corso del diciottesimo secolo, e che esige dagli esseri umani (e soprattutto dalle donne) una mobilità tutta nuova: di tipo fisico, naturalmente, ma ancor più di tipo spirituale[2]. Perché è chiaro che un mercato nazionale del matrimonio può funzionare come si deve solo se gli esseri umani (e soprattutto le donne) imparano a sentirsi «a casa» – parecchi luoghi della figura 1 sono appunto del le case – se una donna sa sentirsi a casa non solo là dove è nata, ma in un territorio più ampio. Se la nazione diventa insomma per lei davvero una «home-land», una grande dimora. E se non proprio tutta quanta la nazione, per lo meno la sua «core area»: l’area centrale, ricca, popolata (e sicura: sì che una ragazza la possa traversare senza timore). L‘abbazia di Northanger:
Per piacevoli che siano le opere della signora Radcliffe, e per piacevoli che siano persino le opere dei suoi imitatori, non è forse lì che bisogna cercare la verità sulla natura umana – quanto meno nelle contee centrali dell’Inghilterra. Le Alpi e i Pirenei, con le loro foreste di pini e i loro delitti, vi sono forse descritte come meritano; l’Italia, la Svizzera, la Francia meridionale sono forse davvero così ricolme di orrori come lo sono le loro rappresentazioni. Catherine non osava giurare che sul suo paese, e anche lì, se messa alle strette, avrebbe confessato i suoi dubbi sulle estremità settentrionale e occidentale [la periferia celtica!] Ma nella parte centrale dell’Inghilterra, la vita di una moglie, sia pur non amata, era pur sempre protetta dalle leggi del paese, e dai costumi dell’epoca…
L ’abbazia di Northanger, 25[3]
But in the central part of England… Non c’è miglior titolo, per la carta dei romanzi di Austen. È quanto alla signora Radcliffe e ai suoi imitatori, la figura 3 conferma la grande distanza tra il mondo del gotico e quello di Catherine Morland.
La sociologia della letteratura ha molto insistito, come sappiamo, sul rapporto tra romanzo e capitalismo. Ma la trama spaziale di Austen suggerisce un’affinità egualmente stretta – già notata da Benedict Anderson in Comunità immaginate – tra il romanzo e lo stato-nazione. Fenomeno moderno, lo stato-nazione, e che ha avuto un impatto enorme sull’esistenza umana: ma che è curiosamente difficile da visualizzare. Perché gli esseri umani riescono a cogliere in modo diretto molti dei loro habitat: un villaggio, una valle, li si abbraccia con uno sguardo; cosi anche la corte, o la città (specie all’inizio, quando è piccola e cinta di mura); persino l’universo – un cielo stellato, alla fin fine, ne è un’ottima immagine. Ma lo stato-nazione? «Dove» sta? Che aspetto ha? Come si fa a vederlo? E poi ancora: villaggio, corte, città, valle, universo, possono esser tutti rappresentati in forma visiva – in un quadro, ad esempio. Ma lo stato-nazione? Bene, lo stato-nazione… ha trovato il romanzo. E viceversa: il romanzo ha trovato lo stato-nazione. Ed essendo la sola forma simbolica capace di rappresentarlo, è anche divenuto una parte essenziale della nostra cultura.
Beninteso, certi stati-nazione, tra cui la Francia e l’Inghilterra/Gran Bretagna, esistevano già ben prima del «decollo» del romanzo settecentesco: ma come stati in potenza, direi, più che come dati di fatto. Avevano una corte, una dinastia, una marina, un qualche tipo di tassazione – ma non erano ancora dei sistemi pienamente integrati: restavano divisi in mille circuiti locali, dove l’elemento propriamente nazionale non aveva ancora toccato l’esistenza quotidiana. Sul finire del diciottesimo secolo, però, un insieme di processi di natura diversa (il completamento delle recinzioni agricole; il decollo industriale; il miglioramento delle vie di comunicazione; l’unificazione del mercato nazionale; la coscrizione di massa) si danno l’un l’altro man forte nello strappare gli esseri umani alla dimensione locale, e gettarli in uno spazio più ampio. Charles Tilly parla per quest’epoca di un valore nuovo – la «lealtà nazionale» – che lo Stato tenta di imporre al di sopra e contro le antiche «lealtà locali»[4]: vero, e questo conflitto di vecchie e nuove lealtà mostra anche come lo stato-nazione abbia costituito, ai suoi inizi, un vero e proprio problema: una coercizione inattesa, e diversa dal vecchio potere locale; un dominio più esteso, più astratto, più indecifrabile – cui solo una forma simbolica nuova poteva attribuire un senso.
E qui, la geografia narrativa di Austen mostra tutta la sua efficacia. In un esempio perfetto della vocazione «problem-solving» della letteratura, i suoi intrecci prendono infatti la dolorosa realtà dello sradicamento territoriale – a inizio romanzo, la casa di famiglia è di norma sul punto di esser perduta – e la riscrivono come un viaggio felice: suscitato dal desiderio, e coronato dalla felicità. Prendono lagentry provinciale, locale, della famiglia Bennet, e ne fanno la naturale alleata dell‘élite nazionale di Darcy e dei suoi pari[5]. Prendono la strana, dura novità dello stato-nazione – e la trasformano in una spaziosa, elegante dimora.
[1]M. Hechter, Internal Colonialism. The Celtic fringe in British national development, 1836- 1966, University of California Press, Berkeley – Los Angeles 1975.
[2]Lo spazio di Austen, beninteso, è troppo esplicitamente inglese per rappresentare davvero la nazione britannica. Su questo piano, L’assenteista (1812) di Maria Edgeworth, o Matrimonio (18×8) di Susan Ferrier – che trattano dell’Irlanda, e della Scozia, oltre che dell’Inghilterra – hanno le carte più in regola dei romanzi di Austen (anche se poi Edgeworth e Ferrier ritagliano a loro volta una nazione entro la nazione, abbandonando un’Inghilterra irrimediabilmente corrotta per l’Irlanda e la Scozia). Fatto è che l’Inghilterra ha sempre goduto di una posizione ambigua e privilegiata all’interno della Gran Bretagna: parte del Regno Unito (come la Scozia, l’Irlanda, il Galles), però parte dominante, che si arroga il diritto di «rappresentare» la nazione nel suo insieme. Il sistema geografico-narrativo di Austen è una tra le forme più riuscite e influenti di questa ambigua sovrapposizione di Inghilterra e Gran Bretagna.
[3]In tutte le citazioni di brani narrativi ho fatto seguire al titolo del libro il numero del capitolo e, eventualmente, della parte.
[4]C. Tilly, Coercion, Capital, and European States, Blackwell, Cambridge-Oxford 1990, p. 107.
[5]Sulle due gentries(locale e nazionale), vedi L. Stone e J. C. Fawtier Stone, An Open E te? England 1540-1880, Oxford U. P., 1986, passim.
Estratto da: Atlante del romanzo europeo 1800-1900

Franco Moretti è un critico letterario e saggista italiano. Dal 1990 si è trasferito negli Stati Uniti dove ha insegnato letteratura comparata alla Columbia University di New York. Dal 2016 è emeritus professor a Stanford. Tra le sue numerosissime pubblicazioni tradotte in più lingue scegliamo di segnalare: Atlante del romanzo europeo 1800-1900 (Einaudi 1997); La letteratura vista da lontano (Einaudi, 2005); Graphs, Maps, Trees: Abstract Models for a Literary History (Verso Books, 2007).