La forma della sera
Seduta al tavolo, sulle ginocchia di suo padre, Lisa aveva finito la carne e le patate. Sfregò con il tovagliolo una goccia di sugo dalla felpa. Era finita sul nero dei capelli di Biancaneve che adesso sembravano bagnati.
Nel quartiere Arbat di Mosca, la breve galleria del Volny Centrum era occupata da tavoli e sedie. Alcune persone in piedi, in attesa di trovare posto al ristorante, sostavano attorno ai tavoli, e lasciavano libera l’entrata a un fioraio e all’accesso di una rampa di scale mobili, che saliva direttamente dalla metropolitana.
Lisa osservava che le persone salivano dalla rampa su gradini che si muovevano da soli. Davanti al loro tavolo c’erano un uomo e una donna in piedi. Si tenevano per mano. Anche loro erano appena arrivati dai gradini che salivano da soli.
Il papà le accarezzava i capelli sfuggiti all’elastico dei codini, e chiacchierava al cellulare. Parlava a uno che chiamava Opresky, e Lisa capì che doveva essere il tipo che papà era venuto qui per incontrare, quello che era stato a casa loro quando era quasi Natale, e che non era piaciuto alla mamma perché, diceva, aveva aloni sotto le ascelle, e puzzava. Suo padre, invece, ci si trovava bene, perché ci parlava sempre al telefono, e diceva che si facevano i soldi con la scarpe che gli vendeva dalla fabbrica nuova.
Il papà continuava a parlare al cellulare, ma lei voleva alzarsi, e provare quei gradini.
Papà! disse, tirandogli la manica del maglione
Papà, posso fare un giro sulle scale che vanno da sole? Lui la guardò, fece un cenno.
Lei scivolò dalle sue ginocchia dimenticando la giacca a vento sullo schienale dello sedia, e sgattaiolò via.
Posò una alla volta le sue scarpe da ginnastica sul primo gradino di ferro, mise la mano sulla plastica nera del corrimano. I gradini scesero fino a un atrio con una macchia su un muro. Si voltò a cercare le scale che risalivano, ma vide solo una rampa di gradini molto ripidi, e fermi. Dall’altra parte dell’atrio vide i gradini che salivano da soli.
Attraversò l’atrio di corsa, urtando con il braccio la borsa di tela di un uomo che le urlò contro. Raggiunse la scala. Che bisogno aveva, quello, di gridare tanto?
Saltò sul primo gradino di ferro, che saliva lento dopo un altro uguale. Sembrava davvero come in una giostra, solo non c’erano bambini. Davanti a lei un ragazzo stava dritto al centro e non si teneva sul corrimano. Aveva un buco sul fianco del giaccone, si vedeva l’imbottitura di piume. Forse non aveva una nonna che sapeva cucire. L’aria fredda che veniva da sopra le ricordò che aveva lasciato la sua giacca sullo schienale della sedia. La salita finì su un atrio largo. C’erano corridoi illuminati da luci al neon, e muri pieni di tabelloni. Si girò intorno, ma non vide scale che riscendevano verso l’atrio con la macchia su un muro. Avrebbe dovuto prendere le scale alla rovescia? E se qualcuno l’avesse vista? Magari l’avrebbero sgridata, come l’uomo della borsa. Meglio cercare altri gradini che scendevano, andare dal papà e prendere la giacca. Faceva freddo.
I gradini dovevano essere dopo quei corridoi. Ne prese uno, quello dov’era entrato il ragazzo con il buco sulla giacca. Dopo pochi metri, sbucò davanti a scalini larghi e fermi. Peccato, pensò, ma non importa anche se non vanno da soli.
Scese le scale, e si trovò all’esterno. Davanti a lei c’era una strada larga e lunga, luci di auto, e lampioni. Dov’era finito il ristorante? Sentì il cuore battere forte. Non voleva tornare indietro, quei corridoi la confondevano. E poi c’era quella stradina, tra due edifici. Somigliava alla stradina dove c’era l’albergo. Aveva gli stessi alberi sul lato del marciapiedi. Ecco! , pensò, adesso torno in albergo e trovo il papà. Oppure prendo l’ascensore da sola, e vado davanti alla nostra porta.
Il ricordo della porta bianca le fece sentire, intensa, la mancanza di suo padre. Ma non c’era motivo per sentirsi spaventata. Non doveva esserci. Ingoiò un groppo di saliva.
Raggiunse la stradina tra gli edifici. Camminò senza guardare le facce delle persone che incrociava, come quando raggiungeva la casa della nonna alla fine della sua via, sapendo bene dov’era e dove andava. Il cuore le batteva forte. La luce delle grosse lampade appese ai muri dei palazzi era gialla, e faceva intuire il buio intorno. Lisa camminò più spedita ancora. Voleva entrare al caldo. Ma la strada sembrava infinita, e l’entrata dell’albergo non c’era. Vide una casa con le finestre grandi e con le grate grosse, come quelle del convento delle suore che non escono mai e pregano sempre. La mamma non vuole che lei e Renato colpiscano le grate con il pallone quando giocano a guerra mondiale sul prato dietro alla chiesetta del Santo, sennò si disturba. Il ricordo della mamma le fece venire voglia di piangere. E adesso le lacrime arrivarono agli occhi. Lisa si appoggiò alla parete dell’edificio sotto una finestra, e si prese il viso tra le mani. Pianse singhiozzando. Perché il papà non la trovava? Avrebbe dovuto stare attento, non lasciare che lei uscisse così, da sola, senza controllarla. Lei era solo una bambina. Aveva cinque anni, era piccola. Anche la mamma lo diceva sempre, che lei era solo una bambina. Lo aveva detto persino quando li aveva salutati all’aeroporto per quel viaggio che papà doveva proprio fare. La mamma doveva andare in un’altra città, anche lei in aereo, ma là non poteva portarla, perché era complicato, e lei era solo una bambina. Le finestre, però, le ricordarono che non si trovava in una foresta, e che se avesse chiesto aiuto, forse qualcuno avrebbe potuto riportarla da suo padre. Ma anche rubarmi, però, pensò un attimo dopo. Il pensiero le fece sentire le lacrime bruciare agli angoli degli occhi. Adesso non passava nessuno. Meglio. La mamma diceva che mai bisognava parlare con gli sconosciuti, e anche suor Clementina lo diceva quando dei grandi si avvicinavano alla recinzione dell’asilo, e anche la zia Antonella quando erano andate in gita al lago. Qui erano tutti sconosciuti. Si asciugò le lacrime con la manica della felpa. Si accorse di tremare per il freddo. Non devo tremare, pensò, se tremo e piango è troppo brutto, vuol dire che è davvero troppo brutto. Sentì dei passi provenire dal fondo della strada. Vide in controluce la sagoma alta di un uomo. Camminava dondolando, come i mostri dei cartoni animati. Dall’altra parte della strada, notò un cancello aperto su un giardino. C’era un vialetto illuminato da lampioni.
Attraversò di corsa e raggiunse il giardino. Era tutto fermo e tranquillo. Oltre i bordi del vialetto, i cespugli e l’erba erano macchie scure. Si accorse di continuare a tremare, e che le scappava la pipì.
Si allontanò al buio sull’erba, verso un cespuglio rotondo, come quello davanti al portico che il nonno potava a forma di pallone, e gli passò dietro. Calò mutandine e pantaloni con uno solo gesto. Voleva fare presto. Fece attenzione allargando i piedi, e si liberò. Si rialzò nel buio e si accorse di una panchina vicina al cespuglio.
La raggiunse, si accovacciò sotto al sedile stringendosi alle ginocchia. Papà, sentì la sua voce uscirle dalla bocca, papà! Adesso stava singhiozzando.
Si sciolse in un pianto sconsolato. Nessuno la sentiva. Un’ora dopo, si addormentò sotto la panchina. Sognò di essere sul suo letto, nella sua cameretta, e di avvertire qualcosa di duro dentro al materasso che usciva da sotto, e le faceva male alla schiena. Si girò e rigirò, finché aprì gli occhi per capire. Si tirò su con un braccio, sentì sul viso un tepore umido, e alla luce del giorno vide il muso di un cane abbassato verso di lei. Era bianco, e cercava di leccarle il naso.
Immagine: Maayan Sela

Elena Gottardello è nata a Camposampiero. Dopo la maturità scientifica si è laureata in Lingue e Letterature Straniere all’Università di Padova, e ha studiato narrazione presso la Scuola Holden di Torino. Insegna Inglese nella scuola secondaria. I suoi racconti sono apparsi su Inutile, Carie, Lunario, Just-an-outer-zine.