Incontro con Oscar Wilde
Un uomo debilitato, disilluso, solo, vittima di un esilio inflitto da coloro che prima l’avevano adorato, in un piccolo albergo nella periferia depressa della Francia del nord. Ogni giorno va a passeggiare lungo le spiagge di Berneval, un paesino vicino a Dieppe, benedicendo la spiaggia deserta, dove non vede mai nessuno, dove il sole non appare mai. E quando non se l’aspetta, quest’uomo, Oscar Wilde, si trova davanti un vecchio amico letterato, André Gide, che è venuto a fargli visita. Le cose non sono più come una volta, anche se occupa le due stanze migliori dell’albergo, anche se si è fatto accomodare con gusto. Perché dopo la galera la vita non può essere quella di prima, perché non si deve ricominciare la stessa vita dopo una cosa così, anche se “la mia vita, prima della prigione si può dire che fosse riuscita per quanto umanamente possibile. Ora è finita”.
Fu a Biskra un anno fa che seppi della lamentevole fine di Oscar Wilde.
La lontananza non mi permise, purtroppo, di unirmi all’esiguo corteo che seguì la salma sino al cimitero di ***, ed io me ne addolorai anche perché la mia assenza dovette diminuire di più il numero dei pochi amici rimasti fedeli; volli, pertanto, scrivere subito queste pagine […] ora che la calma si è ristabilita attorno a questo nome così tristemente famoso, e che il mondo si è stancato, dopo aver lodato, di stupirsi e quindi di maledire, ora, forse, ad un amico sarà permesso di esprimere la propria tristezza e di donare, come corona sopra una tomba abbandonata, poche pagine di affetto, di ammirazione e di pietà rispettosa […] chi ha avvicinato Wilde soltanto nell’ultimo periodo della sua via può mal figurarsi ciò che egli fu di prodigioso negli anni del suo più vivo fulgore per l’impressione che se ne poteva ricevere vedendolo appena uscito di prigione, debilitato e disfatto.
A questo punto i ricordi si fanno drammatici. Voci sempre più insistenti man mano che aumentava il suo successo attribuivano a Wilde i costumi più strani. Certuni ne sorridevano e non se ne indignavano; altri ne restavano indifferenti. Si notava, peraltro, che egli nascondeva poco la sua vita intima, e che più spesso, anzi, ne faceva mostra: con coraggio, diceva qualcuno; con cinismo ribattevano gli altri.
“Il pubblico – prosegue accendendo una sigaretta – è terribile e conosce gli uomini solo per l’ultima cosa che han fatto. Se ora tornassi a Parigi si vedrebbe in me soltanto…il condannato e non voglio mostrarmi prima di aver scritto un dramma. Mi occorre di restare in pace”. E aggiunse bruscamente: “non è vero che è stata una buona idea venir qui? I miei amici volevano che mi recassi a riposare nel Mezzogiorno, perché in principio mi sentivo molto stanco. Ma io insistetti perché mi cercassero qui nel nord della Francia, una spiaggia piccolissima dove non vedessi alcuno, dove non apparisse mai il sole…non è vero che è stata una buona idea di venire a Berneval?” (fuori il tempo è orribile.)
“Qui tutti si mostrano gentili con me. Particolarmente il curato. E io amo tanto la piccola chiesa. Pensate, si chiama Notre-Dame de Liesse. Oh, non è vero che è grazioso? Vi assicuro che non abbandonerò mai Berneval; proprio questa mattina il curato mi ha offerto un seggio perpetuo nel coro.
E i doganieri? Sapete quanto s’annoiano. Ho chiesto se hanno da leggere, e porto loro tutti i romanzi di Dumas padre…Non è giusto ch’io rimanga qui?
E i bambini, oh, mi adorano. Per il giubileo della regina ho dato una grande festa, un grande pranzo al quale invita quaranta bambini della scuola. Tutti, tutti insieme al maestro! Per festeggiare la regina… non è bello? Voi sapete che amo molto la regina; porto sempre il suo ritratto con me”.
“Sapete, dear, è per pietà che non mi sono ucciso. Nei primi sei mesi ho dovuto molto soffrire, e pensavo di suicidarmi; ma ne son stato trattenuto guardando gli altri, vedendo che erano infelici quanto me e provandone pietà. Oh, caro, la pietà è un sentimento ammirevole, che prima non conoscevo.” (Parla quasi sotto voce e senza alcuna esaltazione). “Sapete quale ammirevole sentimento sia la pietà? Ringrazio Dio, sì, ogni sera ringrazio in ginocchio Dio d’avermela fatta conoscere. Nella prigione entrai con un cuore di pietra; non pensavo che al mio piacere; ora invece il mio cuore è aperto alla pietà: ho capito che la pietà è il sentimento più profondo e più bello che esista… ed ecco perché non porto rancore contro chi mi ha condannato né contro nessuno dei miei detrattori, perché per loro merito ho imparato ad avere pietà”.
“In un secondo momento abbiamo avuto un direttore della prigione gentilissimo; ma durante i primi sei mesi dovetti soffrire molto per un direttore che era un ebreo cattivo e crudele perché senza un filo di immaginazione […] oh, quel suo difetto d’immaginazione gli impediva di trovar nuovi metodi per farci soffrire. In prigione è permesso di uscire sono un’ora al giorno, durante la quale si cammina in una corte e in giro gli uni dietro gli altri, col divieto di parlare. Si è sorvegliati dalle guardie, che puniscono severamente chi parla. I novizi si posson subito riconoscere perché non sanno parlare senza muovere le labbra… Nelle prime settimane non dissi parola ad alcuno. Un giorno, durante l’ora di passeggiata, mentre camminavamo gli uni dietro gli altri, udii, d’improvviso, il mio nome: era il prigioniero dietro di me che diceva: “vi compiango, Oscar Wilde, perché penso che voi dovete soffrire più di noi”.
Feci un enorme sforzo perché i guardiani non mi notassero (credevo di svenire), e dissi senza voltarmi: “amico mio, soffriamo tutti ugualmente”. E da allora non penso più ad uccidermi.
Poco tempo dopo Wilde venne a Parigi senza peraltro aver scritto il suo dramma, che rimarrà sempre allo stato di intenzione. La società conosce mezzi più sottili della morte quando vuol uccidere. Dalle sofferenze subite passivamente in quegli ultimi due anni, Wilde ne aveva spezzata la volontà: e se per i primi mesi potè ancora illudersi poi si lasciò andare: e fu come un’abdicazione.
Nel crollo della sua vita tutto andò distrutto; altro non rimase di lui che un malinconico ricordo di ciò che era stato: il brillare spiritoso di qualche raro istante. Come a provare che pensava ancora, ma si capiva subito che era un atteggiamento voluto, ricercato, logoro. Da allora, lo vidi solo due volte […] Pochi giorni dopo lo incontrai per l’ultima volta. Ma della nostra conversazione credo giusto citare una sola frase. Giacché aveva parlato delle sue non liete condizioni economiche, dell’impossibilità in cui si trovava di continuare ed anche di cominciare un lavoro, gli ricordai tristemente la promessa fatta a se stesso di mostrarsi a Parigi solo dopo aver terminato il suo dramma e gli dissi:
“perché avete abbandonato Berneval così presto, quando vi eravate prefisso di rimanere? Non spetta a me un rimprovero, ma…”
M’interruppe, posando la sua mano sulla mia, e guardandomi dolorosamente, soggiunse:
“non si rimprovera mai chi è stato colpito”.
Da: Incontro con Andrè Gide, Edizioni del Cavallino, Venezia, 1945.

André Gide (Parigi 1869-1951) è stato uno scrittore, saggista, critico francese, premio Nobel per la letteratura nel 1947.
Centrali nella sua opera e nella vita furono la volontà di affermare la libertà allontanandosi dai vincoli morali e la ricerca della verità: essere se stesso accettando l’omosessualità riconciliandosi con la rigida educazione e i valori imposti dalla società dell’epoca.
Ispirato da autori come Fielding, Goethe, Hugo, Dostoevskij, Mallarmé, e amico intimo di Oscar Wilde, scrisse opere che ebbero grande influenza sulla generazione di scrittori successiva – Rilke, Malraux, Sartre, Camus, Barthes ecc. – soprattutto per i temi trattati ritenuti scabrosi secondo la morale del tempo.