Il futuro
La ruggine ed il tempo hanno fatto il loro sporco lavoro, mangiandosi un paio di lettere, la A e la R per la precisione.
E così, l’enorme cartellone che da una decina di anni sporca una riva di Salita Sant’Anna, oltre ad una ormai inutile data di scadenza dei lavori, recita un nome in fondo scritto in stampatello: MONG RDI MA IO.
Ed eccolo, Mongardi Mario, mio padre.
Ad una decina di metri da me, con il suo ridicolo cappellaccio da cow boy, che si agita nella sua classica mossa, roteare le braccia in senso orario come a voler mostrare al mondo intero il panorama sottostante.
Lo stesso che 12 anni fa gli aveva fatto, letteralmente, perdere la testa.
Un terreno nella via più esclusiva della città, che per il Mongardi passò dall’essere un occasione irrepetibile (parole sue) ad una vera e propria rovina nel giro di soli 48 mesi . Prima il clamoroso esborso per la terra, poi una cifra faraonica per l’impresa, e poi, dopo un anno senza nessuna vendita, il divorzio.
Mia madre, pragmatica e razionale come un cane da caccia, aveva annusato l’odore acre della disfatta, del tracollo, della trafila di fallimenti e debiti. Lo lasciò in una sera di Aprile, non facendosi più trovare all’interno di quello che era il nostro piccolo bilocale incastrato in via Verdi, solo con una lettera scritta di suo pugno, abbandonata sul tavolo della cucina.
Lui, nella sua lucida follia, non si lasciò intimorire dalla vita e continuò ostinatamente la sua crociata persa in partenza. Depositò quella missiva così stracolma di logica e buon senso in uno dei tanti cassetti vuoti di quella che era stata la loro camera da letto. Convinto che prima o poi sarebbe riuscito a farle cambiare idea, a riconquistarla.
E poi via, in un turbine. Prestiti, fidi, prestanome, una via crucis di disastri.
Fino ad ora.
Un insulso giovedì di un Marzo mai così bizzoso, freddo e limpido al tempo stesso.
Lo osservo, ad un tiro di sputo, è immerso nel rosso chiaro del tramonto migliore che si possa vedere in zona, tutto impegnato in ampi gesti per farmi avvicinare, condendo il tutto con quel suo assurdo sorriso che lo fa sembrare il joker delle carte.
Urla, gesticola, sbraita.
Mi convince.
Faccio ancora finta, per pochi secondi, di non averne voglia, come in un copione di quelle sit-com tutte uguali. Poi, scrollando il capoccione muovo un passo.
Con cura, per non strappare l’ennesimo giubbino, cerco di non incagliarmi nel buco della rete metallica. Affondo le mie costosissime scarpe nella terra fradicia, e mi preparo a quella che è sempre stata la scena finale delle nostre visite al suo paradiso.
Mio padre mi avvinghia, dandomi piccoli colpetti nel costato, come quando ero piccolo e ridevo a crepapelle per le scemenze del mio pittoresco genitore. Poi, come colpito da un invisibile insetto, alza di scatto la testa, fissando l’orizzonte. Prima in direzione della piana che muore nel Monferrato, poi verso l’Eternit e i suoi capannoni desertificati, di quel grigio scuro che esiste solo qui da noi in Piemonte. E solo quando ha finito di ammirare per la millesima volta quella vista mi passa un braccio dietro alla schiena e mi stringe a lui, forte.
“Luca, forza, proviamo di nuovo, tutti e due.”
Conosco questa formula, parola per parola, ma non posso deluderlo, almeno io.
“Dai, ad occhi chiusi, da bravo, fai contento tuo padre”.
Come sempre, serro gli occhi, e appoggio la testa alla sua spalla.
“Eccoci, ci siamo, sei pronto?”
Annuisco, strofinandomi su una sgualcita giacca di velluto verdone, che come noi due porta ben visibili i segni del tempo.
“Immagina: noi tre, io, te e mamma, seduti in giardino con la griglia che brucia delle costolette, giochiamo con un pastore tedesco enorme e ci guardiamo la valle del Po.”
Ed io, per la prima volta, ci vedo nitidamente.
Immagine: David Ring

È nato troppi anni fa in Alessandria. Negli anni in cui lavora nel mercato discografico, quando ancora esisteva un mercato discografico, comincia a scrivere; pubblica alcuni racconti e pezzi per riviste online, ma non riesce nel suo intento di pubblicare almeno un racconto breve per minimum fax. Ora spreca i suoi giorni all’interno di enormi centri commerciali e cerca di rimanere sano di mente collaborando con il filmmaking collective Lacuna Inc e tenendo un blog di racconti, suoi e non, philophobia.