Ibrido di fuoco
In un mondo di fuoco, Cassie si ritrova prigioniera di un corpo estraneo che le parla di un passato troppo difficile da affrontare. Una storia di una speranza fragile come una scintilla nel buio, destinata a crescere tra le macerie di una società che ritrova nell’accettazione la forza di coltivare un nuovo futuro.
Dopo tre mesi, quando mi sveglio non urlo più.
Socchiudo gli occhi alla luce soffusa che filtra dalle tapparelle e libero un braccio dal piumone,
alla ricerca del basso comodino alla sinistra del letto.
La mia mano si scontra con il vuoto.
Sbuffando mi giro di lato, raggomitolandomi attorno alle ginocchia.
Non sono sicura di cosa mi aspetti oggi, ma mio padre verrà a svegliarmi a breve e Thomas si nasconderà con me sotto le coperte per non farsi trovare.
Mi rannicchio nel calore notturno della camera, cercando di scacciare i flash confusi di colore che mi attraversano sotto le palpebre chiuse.
Non ricordo mai che cosa sogno durante la notte, ma qualunque cosa sia, probabilmente è la causa delle macchie cremisi che restano incollate alla mia retina, come un velo fastidioso che per qualche minuto mi avvolge la testa d’arancio, giallo, rosso.
Passano i minuti, ma nessuno viene a chiamarmi.
Forse la sveglia non ha suonato, forse non ho sentito mio padre entrare.
Appoggio i piedi sul pavimento, cieca nel buio cerco le ciabatte, ma trovo solo la stoffa ruvida del tappeto e il lembo penzolante delle coperte.
La casa è così silenziosa.
Traccio con la mente i contorni della camera – il rettangolo dell’armadio, l’onda allungata della scrivania nell’angolo, l’ostacolo della sedia girevole subito prima della libreria – e con le mani davanti al viso avanzo incerta verso la porta.
Mentre mi muovo, l’aria mi scivola addosso, dita fredde che si insinuano tra i pori con facilità, infrangendo la barriera invisibile della pelle.
È una sensazione fastidiosa, anche le ossa sembrano farsi fredde.
Sono quasi arrivata alla porta, lo spiraglio di luce sotto lo stipite brilla nel buio.
Un istante e non sono più in grado di reggermi in piedi.
Terrorizzata, percepisco il cadere di un corpo non più mio, ogni terminazione nervosa si spegne come se avessero di colpo tolto la corrente.
Mi sembra di essere ancora lì, in piedi di fronte alla porta, ma giù accasciato al suolo c’è un corpo che urla il mio nome come se mi conoscesse.
Non sento altro che aria, spazio infinito che mi attraversa come fossi invisibile.
Eppure sono sicura che un tempo c’è stata forza, ci sono stati nervi e calore, pelle, carne e sangue.
– Cassie.
I pensieri premono ansiosi ai margini della mente, ma sono così spezzettati, laceri e confusi, non riesco a capire il messaggio che mi vogliono trasmettere.
– Ti avevo detto di non alzarti.
L’oscurità si accende con la stessa velocità con cui ho perso parte di me stessa.
Inizia pian piano dalla finestra, un punto di tremolante luce arancione, che timido si arrampica sul tessuto liscio della tenda.
Quella si infiamma all’istante, come carta.
Le fiamme prendono sempre più potenza, mangiano parte del legno della finestra, insaziabili si allungano verso la tastiera del letto; in un attimo, anche quella è una bocca di fuoco.
È un fuoco che non fa fumo, sembra quasi un fuoco gentile, lingue definite e ricciute così belle, piene di riflessi dorati e azzurri; ne sono terrorizzata.
Perché è scritto lì sul muro, vogliono solo me, stanno per venire a prendermi.
Il legno lucido del pavimento si annerisce, il fuoco striscia per terra come un serpente.
– Cassie, guardami, sono qui.
Avanza sempre di più e so di dover scappare, perché fa troppo caldo, perché devo scendere le scale, avvertire mio padre, svegliare mio fratello.
Riprendo possesso del mio corpo quando una lunga fiamma rossastra si attorciglia alla caviglia e penso che è così crudele ritornare ad avere le mani, i piedi, la pancia e le spalle solo per sentirli bruciare.
Brucio, il calore e l’ansia mi paralizzano, non c’è altro che rosso e giallo e il nero del pavimento sotto le dita.
Adesso vedo la mia pelle, una aliena coperta di fuoco, ed è un fuoco furbo che prima di tutto mi attacca dentro, lo stomaco e i polmoni e il cuore che pompano sangue infuocato, si attorcigliano e urlano perché stanno morendo mangiati.
Brucio, e sono un ibrido di fuoco appena nato.
Nel momento in cui realizzo che non sopravvivrò, capisco che ho fallito.
Thomas, la bocca socchiusa e il pancino rotondo sotto la maglietta alzata del pigiama, mia madre e le ciocche ispide dei suoi capelli annodate sul cuscino, mio padre con una mano sopra la sveglia.
Perdo i loro sorrisi dentro le fiamme.
– Adesso passa, manca poco.
Il fuoco continua a correre, ora ha contaminato anche tutto il soffitto, pezzi neri cadono all’alto come foglie marce.
Non si arrende, e la mia pelle stanca non ha nemmeno più la forza di reagire al bruciore.
Che accada quel che accada, voglio solo rivederli.
La forza brutale del ghiaccio che mi assale all’improvviso mi fa urlare di dolore.
Apro gli occhi di scatto rianimata dalla scarica di adrenalina e vedo bianco.
Il liquido trasparente che mi scorre addosso può essere solo acqua, perché tutto d’un tratto perfino il ricordo del fuoco sembra lontano e non sento altro che lo sfrigolio della pelle che si libera del vecchio calore.
Sospiro di sollievo, non posso farne a meno.
Lo stomaco si riapre e i polmoni raggrinziti si dilatano nel petto.
– Va meglio?
Due mani maschili si intrufolano nel mio campo visivo, la destra tiene in mano il microfono della doccia, la sinistra mi sfiora il braccio.
Anestetizzata dall’acqua, la pelle non riesce a percepire il contatto, ma vedo quelle cinque dita muoversi sul gomito, sul polso, massaggiarmi la pancia.
Incantata le guardo disegnare sulla pelle piccoli cerchi tremolanti, non si fermano neppure per un secondo, continuano a scendere lungo la gamba fino al ginocchio.
Quando l’acqua comincia a cadermi sul viso, accolgo le gocce tra i capelli, ascoltandone il tonfo leggero mentre rimbalzano sulle spalle, giù in fila ordinata lungo la colonna vertebrale.
Alcune si fermano sulle ciglia, così l’immagine del viso fermo a pochi centimetri dal mio mi arriva indefinita ed annacquata agli angoli, però mi basta, e lo riconosco lo stesso.
Appena scorge nel mio sguardo l’amaro dolore della lucidità Edmund mi sorride triste, facendomi un cenno con la mano bagnata.
– Ciao.
Provo a rispondergli, ma le corde vocali tremano così tanto che mentre la voce cerca di risalire la gola ho paura di spezzarle.
Abbasso la testa verso il petto, l’acqua ha già riempito più di metà vasca e il cotone della maglietta galleggia sulla superficie come una gonna vaporosa.
– Sei stata incosciente per più di due ore. Continuavi ad urlare di volere dell’acqua, che bruciava; la doccia è stato l’unico modo per farti smettere.
Le sue mani continuano a disegnarmi, ma io le fermo e me ne porto una al volto.
Una macchia rossa e lucida scende dal polso e gli avvolge il pollice e l’indice, arrestandosi a metà dorso in curiosi bordi frastagliati. Assomiglia alla pelle di un uccellino, il primo strato delicato che aspetta d’essere coperto di piume, tutto sangue e muscoli. Dentro il rosso, alcune striscioline di pelle si alzano raggrinzite, due piccole labbra viola, come bocche aperte all’aria.
Timorosa giro la mano e ne sfioro il palmo rosato, così sorprendente morbido, solo una lunga linea rosa lo attraversa in diagonale, sfumando in prossimità delle vene bluastre dell’avambraccio.
L’altra mano è messa anche peggio. Tutta la pelle sembra … morta.
Il tessuto quasi trasparente che lega le dita s’ingiallisce in prossimità delle nocche, mentre le dita tendono al grigio, ruvide come carta vetrata.
Le unghie appena rinate sono di uno strano color nocciola ai bordi.
– È uno spettacolo così brutto?
Mollo subito la presa sulle sue mani, ma lui continua a tenerle sotto i miei occhi, per nulla infastidito dall’espressione disgustata congelata sulle mie labbra.
Io continuo a fissarle.
Poco dopo chiude il rubinetto, mi solleva in piedi e mi avvolge in un asciugamano azzurro.
Chiudo gli occhi mentre con un asciugamano più piccolo mi friziona i capelli, strizzando l’acqua dalle punte.
– Vado a prenderti dei vestiti asciutti, torno subito.
Mi guardo attorno, non sono mai stata in questo bagno, ma è perfetto.
Mattonelle di ceramica alle pareti, infissi di metallo; non c’è cibo per il fuoco qui.
È quando alzo lo sguardo verso il lavandino che mi accorgo del sottile meccanismo a molla nascosto sotto il porta oggetti sulla parete.
Con una leggera pressione faccio scattare l’anta che assonnata si stiracchia verso l’alto.
La distesa luccicante si rivela alla luce del lampadario, timida sotto l’acciaio.
Resto a fissare la mia immagine finché le pupille disidratate cominciano a lacrimare.
Nell’arco di un forzato battito di ciglia, riproduco nel buio ogni più piccolo, schifoso, nauseante dettaglio.
Sono ancora ferma davanti allo specchio quando Edmund riappare.
Senza guardarmi mi chiede il permesso di togliermi l’asciugamano.
Mi sfila la maglietta bagnata dalla testa toccandomi il meno possibile, in equilibrio con la punta dei polpastrelli sulle ossa sporgenti del bacino.
Non nasconde lo specchio e io rimango inerme, pesante come cemento; ad un certo punto è costretto ad alzarmi la caviglia per farci entrare la gamba dei pantaloni.
L’unica cosa che riesco a riconoscere sono gli occhi.
Mia nonna aveva sempre difeso il marrone annacquato dei miei occhi – per lei la bellezza era nella normalità.
Ora, le iridi scure brillano come due gemme della terra ed è difficile pensare che esista qualcosa di più bello di loro due, superstiti punti di luce in un viso arso vivo.
La bocca, il mento e parte della fronte, gli zigomi, il collo e la spalla destra sono ricoperti di vesciche. Sono le stesse delle mani di Edmund, solo che sono molto più grandi, ricoperte di uno strano liquido giallo.
Lì dove la pelle non è rossa o viola, si sono formate spesse croste marroni; una mi attraversa la guancia, sparendo dietro l’orecchio.
– I capelli.
Al suono della mia voce, Edmund sobbalza e si ferma, lasciando i cordoncini dei pantaloni penzolanti sulle gambe.
La parte destra della mia testa è stata completamente rasata. Il cuoio cappelluto pulsa scoperto e bitorzolute cicatrici si annodano e si intrecciano sulla pelle chiara in una deludente imitazione dei miei vecchi capelli.
Dall’altra parte, stremate ciocche sopravissute si afflosciano l’una sull’ altra.
– I miei capelli.
Folti e color petrolio erano sempre stati l’orgoglio di mia madre.
Ogni sera prima di andare a dormire me li spazzolava con cura, mentre io contavo assonnata fino a cento.
– Sarai la mia bella principessa per tutta la vita – mi diceva.
– Devo metterti la crema, Cassie.
Ignorando il mio stupido farfugliare tra i denti, Edmund spreme un po’ di crema perlata sul dorso della mano, poi con estrema delicatezza la passa sul mio viso.
Percorre ogni centimetro di pelle, i contorni degli zigomi e della mascella, soffermandosi lì dove una volta ci dovevano essere le sopracciglia, lo strato trasparente delle palpebre, sotto le narici, tracciando la linea invisibile delle mie nuove labbra sottili.Come quando mi aveva sorpresa a fissare la sua mano, aspetto un’espressione di ribrezzo che non arriva.
Sembra quasi che gli piaccia stare qui, a passare le mani martoriate sul viso di un mostro.
Per compensare, decido che posso permettermi di sentirmi nauseata per entrambi, e vomito sul lavandino rabbia e succhi gastrici.
Edmund mi passa un pezzo di carta igienica con cui mi asciugo il mento, poi mi fa sedere sul bordo della vasca.
Quando comincia a infilare le dita tra ciò che rimane dei miei capelli è davvero troppo e mi allontano dalle sue mani.
– Ti giuro, sarò velocissimo.
È ancora con le braccia alzate sopra il viso, le maniche della camicia arrotolate oltre i gomiti.
Mi sorride e mi fa un cenno di incoraggiamento con la testa.
Ad occhi chiusi ritorno nella bolla di calore del suo corpo e mi limito a tremare ogni volta che mi sfiora una cicatrice.
Mi chiedo come faccia a sapere; sarò velocissimo.
Nessun “non ti farò male” o “non ti preoccupare”, è così maledettamente a suo agio.
Io voglio solo dormire, mentre lui sembra trovare solo le parole che mi costringono a fare quello che vuole.
Si muove preciso mentre districa i nodi, alza e allunga con familiarità le ciocche, posandone alcune sulla parte spoglia della testa.
Dopo esattamente tre minuti lo sento allontanarsi di qualche passo, il respiro regolare e un’ombra soddisfatta sulle labbra.
– Così sembrano lucidi e lisci come una volta, non si noterà la differenza.
Spartite da una decisa linea centrale, due bande di capelli curvano dietro l’orecchio, intrecciandosi lungo metà schiena fino all’elastico. L’attaccatura troppo alta si nota benissimo sulla fronte spaziosa, ma almeno adesso la parte rasata è sparita, coperta da ciocche prestate.
L’unica cosa a cui riesco a pensare è che non è così che dovrebbe sembrare una principessa.
Edmund mi chiama e io lo seguo fuori dal bagno.
Mi lascio guidare oltre il ballatoio scuro, lungo la scalinata di ferro fino ad un’ampia stanza disturbata da rumori di pentole che sbattono e acqua corrente.
Riconosco nell’angolo più lontano una sedia impagliata color del vino e senza pensarci troppo capisco che è vuota perché aspetta solo me, come ogni mattina.
Una decina di persone beve il caffè in piedi vicino alla finestra, le pause di silenzio tra i tintinnii dei cucchiai sanno di segreti condivisi e rassegnazione del cuore.
Riconosco le mani arrossate della ragazza della panetteria in centro, le spalle larghe della proprietaria della ferramenta; quello seduto a gambe accavallate potrebbe essere un vecchio dipendente della banca – ricordo vagamente la macchia di neve annidata tra i ciuffi nerastri – ma ha il volto rivolto verso il cielo e riconosci davvero qualcuno solo se lo guardi negli occhi.
Per lo più però sono estranei, gente del posto forse incrociata in una domenica di primavera.
Gente che non avrei mai pensato di vedere dentro una cucina.
– Stai attenta, scotta.
Edmund si siede su uno sgabello di legno di fronte a me, la sua tazza è così grande che quando beve il viso ci sparisce dentro.
La cucina ariosa, lo scalpiccio lontano di stivali sul cemento, ragazzine che fanno la spola dalla finestra aperta alla porta di mogano con secchi d’acqua piovana in bilico sulla testa, donne sommerse da enormi carichi di biancheria pulita; qualcosa mi dice che tutto questo non dovrebbe essermi estraneo, eppure non posso fare a meno di sentirmi a disagio.
Non c’è traccia di gesti avventati o espressioni confuse, sono circondata da un esercito di soldati, efficienti e precisi, che appendono la biancheria sul fil di ferro del cortile, spazzano le mattonelle sporche della pompeiana, rammendano un paio di calzini.
Persino i bambini fermi ai piedi delle scale sembrano sapere che giocare è il loro compito e silenziosi fanno saltare con precisione i pupazzi di gomma sugli scalini.
Hanno disegnato nuvole, case e soldatini sulle bende bianche sulle braccia.
Mi sorprendo a fissare la sirena rossa sopra la credenza, in attesa del segnale della pausa pranzo.
– Ciao Ed.
Una ragazza si ferma a qualche passo da me e appoggia una mano sulla spalla di Edmund.
Lui che stava guardando fuori dalla finestra non l’ha vista arrivare e reagisce al contatto inaspettato rovesciandosi metà caffè sulla maglietta.
– Scusami, non volevo spaventarti!
– Non ti preoccupare, Sofia.
Accetta con un sorriso il fazzoletto dalla ragazza, ma le mani gli tremano e resta concentrato a pulire la macchia marrone sulla pancia troppo a lungo.
– Sono venuta a dirti che Rosemary mi ha detto di domandarti se potevi visitare sua figlia quella più piccola che si è presa un bel raffreddore e non riesce più a respirare da quanto ha il naso chiuso e non fa altro che tossire ed è davvero un bel disastro perché la notte non riesce più a dormire e sono tutti stanchissimi.
Le parole le scappano dalla bocca a una velocità inquietante.
Non fa mai una pausa, sputa fuori tutto il discorso in un sol fiato, e mentre contrae la bocca le labbra tremolano e s’incastrano tra loro.
Quando finisce si abbandona con la schiena sul tavolo.
– Non credo di riuscire a visitarla prima di questa sera, al massimo domani mattina. Grazie Sofia.
Lei gli sorride e quando le sue guance si accendono di scarlatto penso che sia solo l’effetto del sorriso troppo gentile di Edmund.
Invece comincia a tossire, ed è un rumore disgustoso e roco che le esplode da dentro.
Edmund la solleva dal tavolo e le passa un braccio dietro la schiena, mentre la ragazza si trasforma troppo velocemente in una malata versione di se stessa.
L’attacco dura più o meno dieci minuti, ma nessun’altro oltre ad Edmund arriva in suo soccorso.
Quando finisce, Sofia tira fuori la lingua, respirando affannosamente come un cane.
Edmund la fissa negli occhi, rassicurandola con piccole carezze sulle spalle.
Io le fisso la lingua penzolante, finché non sparisce dietro le labbra.
Un corto, nero mozzicone bruciato.
– Va meglio?
Le porge un bicchiere d’acqua e la compassione nei suoi gesti è quella che solo chi ha visitato il tuo stesso inferno può permettersi di provare.
Forse, una volta ricevuto lo stesso destino ci si può fin da subito considerare amici.
Lei si limita ad annuire e per la prima volta mi sfiora con i suoi occhi verdastri.
– Ancora niente?
Sta parlando a me, ma è Edmund a rispondere al posto mio.
– No.
Due semplici lettere, eppure restano impigliate nel nostro silenzio, estranee.
Mi perdo in un punto imprecisato del petto di Edmund e mi riscopro a ricordare il guizzo agile dei suoi muscoli mentre stringe le dita in un pungo, l’infrangersi della chioma nera sulle tempie come onde d’un mare in tempesta, l’odore di pulito della sua pelle sotto la camicia a quadri, il neo a forma di cuore dietro l’orecchio destro.
– Hanno cominciato la semina.
Una ragazza sporca di terra dà a gran voce l’annuncio a tutta la cucina e dalla portafinestra lasciata socchiusa entra il profumo della terra, della pioggia gentile.
Ne seguo la scia fino in giardino, come ammaliata dal canto delle sirene.
Mi faccio strada tra le siepi rossastre di uno stretto sentiero piastrellato e cammino finché la luce del sole è così tenue che sono sicura di essermi persa e l’unica cosa che sento sono i piedi di Edmund inciampare dietro ai miei.
Ma poi una curva, e tutto s’accende di luce.
L’aria frizzante della primavera mi saluta con un bacio e d’un tratto sono a casa.
Non ci sono alberi, solo qualche arbusto a puntellare la nascente distesa d’erba nuova che si alzerà orgogliosa dal terreno.
Tra i lunghi letti di terra arata stanno chinate moltissime donne, tutte raccolte attorno al loro grembo a proteggere la nuova vita nei semi ammucchiati sui grembiuli.
Depositano i semi nelle loro piccole culle con sussurri antichi come ninnananne, nessuna di loro osa alzare gli occhi dalla terra, timorose di mancarle di rispetto.
Mi unisco a quel corteo silenzioso assieme a Edmund, che raccoglie la terra bagnata tra le mani strette a coppa come se fosse sul punto di berla.
Un po’ alla volta si accorgono della nostra intromissione ma nessuna si sofferma sul mio viso.
La donna anziana alla mia destra mi indica il suo grembiule, offrendomi un po’ di semi.
Puzza di stufati di carne e le mancano quasi tutti i denti, ma il suo sorriso ha il sapore della speranza.
Imito i suoi movimenti, scavando una piccolissima buca nella terra, e lascio cadere quattro semi sul fondo, coprendoli con una manciata di terra.
Uno per mio padre, uno per mia madre, uno per mio fratello.
Uno per me.
Restiamo inginocchiati a seminare fino al pomeriggio, fino a quando le ginocchia fanno così male da non riuscire a camminare, ma potrei continuare a sporcarmi e sudare per giorni infinti se volesse dire avere la mente libera dalle fiamme.
– Bel giovanotto, aiutami con questi sacchi.
Tutti stanno rientrando verso casa adesso e Edmund mi lancia un’occhiata disperata da sopra la spalla di una bassa vecchietta.
Si carica quattro sacchi sulle braccia, attento a non strofinare la pelle delle mani sulla juta ruvida, ma sono così grandi che non riesce più a vedere la strada e devo segnalargli a voce le buche e i rami bassi.
– A fine mese avrò la schiena a pezzi.
La piccola processione è già sbucata nel giardino, quando noto la macchia luminosa che danza impazzita sul terreno.
È lo stesso riflesso che faceva la luce del sole quando colpiva il piccolo orologio al polso di mia madre, mentre concentrata cucinava quella pessima zuppa di fagioli o si allungava per togliere la polvere dalla credenza troppo alta.
La recinzione scura del giardino mi impedisce di vedere da dove proviene.
Ma non si tratta di un orologio e quando giungo dall’altra parte della rete mi lascio scivolare stremata.
Io voglio sole, acqua, e un campo dove Thomas può correre e mio padre può coltivare le sue verdure.
Quello che ho davanti invece è solo un’informe montagna di rottami che fa lotta con il cielo.
La terra è così secca che assomiglia a sabbia.
La maggior parte sono solo indefiniti pezzi di ferro anneriti, qua e là qualche tegola, un piano di cottura di una cucina, un arco da caccia marcio, i resti di una lampadina.
Una lamella di ferro luccicante in cima.
Uno yo-yo sporco sopra un masso.
Resti dell’incendio, testimonianze di vecchie vite.
Il villaggio in fiamme, il fumo e il nero nei polmoni, le urla, le luci rosse delle sirene, la carne sminuzzata.
Pezzi d’anima.
– Portiamola dentro!
Le case crollate, la fontana prosciugata, la terra nera, le lacrime tra le ciglia, i tagli infetti, le ferite aperte, i sogni finiti.
I sopravvissuti, e i morti.
– Devi tenerla ferma!
Thomas a sei anni era caduto dalle scale ed era rimasto in coma per tre giorni per il colpo preso alla testa. I dottori ci avevano rassicurato che era solo il modo con cui il suo corpo aveva deciso di rielaborare il trauma, ma io guardando le sue palpebre chiuse avevo avuto lo stesso paura di perderlo.
E se fosse andato da qualche parte e non fosse più voluto tornare?
Quando aveva riaperto gli occhi mi ero ripromessa che non l’avrei più lasciato andare via.
Non avevo capito che il problema non era non voler tornare, ma non poterlo più fare.
– Cassie, manca poco.
Sorrido a Edmund, gli stringo anche la mano.
Ha la maglietta tutta sporca di sangue.
No, aveva detto a Sofia, ancora niente.
Ancora niente dolore, ancora niente ricordi, ancora niente rassegnazione, ancora niente morte nel cuore.
Ancora niente rimorso, ancora niente solitudine, ancora niente rabbia, ancora niente macerie, ancora niente fumo, ancora niente fuoco, ancora niente vuoto.
Ancora niente Cassie, ma nessuno mi aveva avvertito che il niente è meglio del tutto.
La mattina quando mi sveglio non urlo più.
Non sono sicura di cosa mi aspetti oggi, ma mio padre verrà a svegliarmi a breve e Thomas si nasconderà con me sotto le coperte per non farsi trovare.
Passano i minuti, ma nessuno viene a chiamarmi.
L’incendio inizia quando sono ancora a letto.
Le fiamme si distendono lungo la libreria e mi avvolgono così velocemente che la stanza rotea su se stessa.
Li cerco tra il fumo e la fuliggine, sapendo che è l’unico posto dove posso trovarli.
Se non possono venire loro da me, devo essere io a tornare da loro.
– Tranquilla Cassie, adesso passa.
Un giorno la vita sarà di nuovo degna d’essere vissuta, un giorno la mia pelle ricrescerà e le case verranno ricostruite, un giorno ci saranno nuove cose da ricordare e rifiuteremo tutti assieme la disperazione.
Un giorno i semi diventeranno erba e il cemento vincerà sulla cenere.
Un giorno, ma ora posso solo essere lasciata indietro.
Mio padre sta ancora dormendo e il suo braccio penzola oltre il fianco di mia madre. Lei non si è tolta l’orologio dal polso, ha ancora una palpebra truccata d’azzurro.
Thomas si rigira nel letto, parlando a fior di labbra ai suoi sogni.
Chiudo gli occhi e mi lascio bruciare.
Racconto finalista Premio Campiello Giovani
Immagine: FaithAvenueShop

Classe ‘95, ho iniziato a leggere e a scrivere fin da quando ho potuto. Sono arrivata alla finale del Campiello Giovani (2013) specialmente grazie a Jane Austen, alle sorelle Bronte e al Romanticismo Inglese, ma la verità è che non ho mai saputo tenere un libro chiuso tra le mani.