I due risvegli di Janàka
Si svegliò prono, abbracciato a un grande e morbido cuscino, e la prima forte sensazione che lo invase fu quella del fresco profumo delle lenzuola che l’avvolgevano e dell’odore di gelsomino che emanava la propria pelle. Lui, Janàka, sovrano in quel risveglio, sprofondato nell’accogliente e molle giaciglio di un re.
Non appena scostò i leggeri drappi del baldacchino per posare i piedi a terra, un servo accorse porgendogli i calzari e restò fermo nell’inchino finché non ricevette cenno di riposare.
Quel mattino, dopo l’abbondante colazione, si risolse a recarsi personalmente e senza la solita scorta reale presso Mahavinda, il più grande saggio di Panimistra, regno che si estende dai fertili altipiani alla base del monte Panim fino al corso del profondo e pescoso fiume Asàr.
Adesso basta! aveva pensato tra sé mandando giù distrattamente gli ultimi bocconi. Era ora di capire chi egli stesso fosse davvero; quale tra i due risvegli avvenisse nella vita che veramente gli apparteneva. E forse solo il sommo dei saggi, l’illuminato Mahavinda, beato tra gli uomini, avrebbe potuto aiutarlo.
La folla disparata che si assiepava disegnando un colorato semicerchio attorno al grande albero di mango, sulle cui radici sedeva un sorridente Mahavinda mentre narrava storie agli astanti, fu sorpresa di vedere il re arrivare solo e al galoppo concitato del suo destriero. Smontato da cavallo, essa si aprì deferente per lasciare che il re potesse avvicinarsi al Saggio, che nel frattempo lo guardava con un sorriso ancora più marcato, quasi lo stesse aspettando. Quando Janàka gli fu a una spanna di distanza gli si prostrò e disse: “O venerabile Mahavinda, ho bisogno di conferire privatamente con Voi”. L’Illuminato gli rispose: “Lascia ch’io finisca il mio racconto per loro e poi sarò presso di te”.
Il re, vestito sontuosamente di rosso e di oro, e Mahavinda, coperto dalla sua tunica metà bianca e metà gialla, si sedettero, l’uno al fianco dell’altro, su di una panca ricavata nella roccia. Due macchie sgargianti, circondate dal fresco colonnato delle centinaia di radici aeree del secolare albero di banian che cresceva nel giardino del tempio. In quella frescura Janàka spiegò all’Illuminato la ragione dell’afflizione del proprio animo: “Oggi sono re e godo di questo immenso privilegio, ma nel domani mi capita sovente di svegliarmi nei panni di un mendicante. Allo stesso modo, quando sono mendicante, spesso cerco il sonno per tornare a destarmi in qualità di re. Insomma i miei risvegli da re e da mendicante si avvicendano senza posa, e non so più se io sia realmente un sovrano o un miserabile”.
L’Illuminato lo guardò ilare e, dopo una pausa, gli disse: “Tu adesso mi stai chiedendo un verdetto, ma non sai se lo stai facendo da sveglio o da dormiente; non sai pertanto se io sono un parto della tua immaginazione o un vero beato in carne ed ossa. Allora, per mettere alla prova i tuoi sogni, ti consiglio di tornare a trovarmi quando ti sveglierai nei panni del mendicante”. Ma Janàka prontamente obiettò: “Ma come farò anche allora a sapere chi tra i due saggi è il vero Mahavinda?”. “Giusta osservazione” rispose il vecchio saggio e, dopo essersi frugato in tasca, ne estrasse un bellissimo e ampio fazzoletto blu, su cui erano dipinte in risalto le costellazioni celesti. Dopo averlo teso di fronte a sé con ambo le mani, Mahavinda lo strappò in due parti e rivolgendosi a Janàka gliene porse una metà e disse: “Non farmi ulteriori domande e segui soltanto la mia istruzione: quando questa notte ti coricherai, avvolgi questa parte del drappo ai tuoi fianchi e legatela in vita. Ora va’ e non chiedermi altro nei panni di re; torna a interrogarmi nei panni di straccione”.
Così, dopo aver tributato al grande uomo i suoi regali omaggi, Janàka tornò a Palazzo reale. Quella sera, coricandosi, seguendo l’indicazione del Beato, si strinse in vita, a guisa di cintolo, la stoffa dimidiata che il grande uomo gli aveva consegnata e poi si addormentò.
Appena aprì gli occhi sull’umido albeggiare che proveniva come fioca luce dal pertugio della sua capanna, Janàka comprese che quel mattino, avvolto nel fetore di sporco e di rifiuti gettati nello scolmatore ai lati della strada, gli era toccato il miserabile risveglio in baracca. Attorno al suo solitario tugurio correva già un brulichio di voci e schiamazzi, che la pesantezza del suo sonno aveva comunque sino ad allora quietato. Attanagliato dai morsi della fame s’incamminò subito verso il tempio di Mahavinda. Il tragitto lo avrebbe tenuto impegnato alcune ore, ma fortunatamente presentava frutteti dai quali avrebbe certo attinto per chetare il mugolio dei propri intestini.
Arrivato al tempio vide che Mahavinda sedeva in cima alla scala, parlando con alcuni suoi adepti in abito talare, che stavano in piedi, alcuni gradini più in basso, ad ascoltarlo assorti. Quando Janàka si avvicinò, essi lo guardarono con un principio d’indignazione e di repulsione negli occhi. Il Saggio allora si rivolse loro: “Lasciate che questo giovane uomo venga a me”. Così i suoi seguaci si scostarono e Mahavinda, avendo ormai di fronte Janàka, gli disse: “Sciogli dai fianchi l’unico straccio pulito che hai e dammelo”. Il giovane mendicante ubbidì, sorpreso di trovarsi ora quella stoffa legata in vita, avendone solo adesso riacquistata memoria. Dopodiché l’Illuminato distese per terra l’ampio brandello di tessuto datogli da Janàka e, traendone un altro della stessa foggia dalla propria tasca, glielo stese accanto, facendo combaciare in un perfetto incastro le due metà strappate e ricostruendo così l’intera geometria del firmamento.
A Janàka, Mahavinda fece poi offrire della zuppa di riso e volle che parlassero con maggior riserbo all’interno del tempio e da soli, al riparo dalla curiosità degli uomini e dai raggi del sole che bruciavano in quell’ora così calda del giorno.
Janàka si rivolse perplesso al Maestro: “Ma se ora Voi siete lo stesso di quando io mi sono risvegliato re, poiché avete conservato la metà del fazzoletto che mi mostraste allora, perché, a differenza di voi, questo mondo non è per me lo stesso? Perché oggi sono un miserabile e domani sarò un sovrano?”
Mahavinda rispose: “Ascolta mio giovane amico: la saggezza non muta, che si presenti durante la veglia o durante il sonno essa rimane sé stessa. Ma ora voglio farti io una domanda: quale tra i due tuoi risvegli ti è più penoso e quale, al contrario, ti dà maggiore gioia?”
“Ovviamente svegliarmi re mi dà maggior gioia, mentre, al contrario, ritrovarmi mendicante mi causa pena” rispose Janàka.
“Ecco, allora fa’ in questo modo” disse Mahavinda, “di’ a te stesso – ma credi a ciò che dici! – che quando ti ritrovi mendico questuante stai vivendo in un sogno irreale che presto svanirà, facendoti risvegliare a quella che definisci invece ‘realtà’. Essa ti accoglierà così per sempre in qualità di re, di sovrano del ridente regno di Panimistra, che dà asilo anche a me. Da’ al disagio l’irrealtà accidentale del sogno e alla gioia signorile di un monarca la più fervida realtà. Così facendo sarai un uomo più felice”.
Da allora, al sublime re Janàka, consigliato dall’immanente e sconfinata saggezza di Mahavinda, capita talvolta l’istruttiva esperienza di provare, ma solo in sogno, il tormento della miseria.