Fattura n. 09868
Avevo bevuto una birra, stappata alle ore 11.15 in punto, con una precisione quasi svizzera e una gestualità talmente spontanea da calarmi perfettamente nel ruolo dell’alcolizzato, io che non bevo quasi mai e se lo faccio a stomaco vuoto rischio di sbandare come una ragazzina. Esattamente quello che ho fatto questa mattina. Una sigaretta rullata con impazienza e una birra precoce, una birra piccola in bicchiere grande, bevuta in piedi al bancone di un bar senza neppure una patatina a riempire la voragine di succhi gastrici. Il telefonino squilla a ripetizione, ma sono già abbastanza alticcio da non prestarci attenzione. Di solito avrei dedicato tutto il mio tempo, e tutta la mia grammatica, nel rispondere a quei messaggi. Di solito, ma non questa mattina. C’era una notizia di carbone che mi ingolfava il cervello al punto da costringermi all’irregolarità: una birra per rilassarmi era tutto quello che mi serviva. Sapevo che non avrei resistito a lungo, così mi ero già portato avanti con il lavoro. Una buona lista di posti dove mangiare, in qualsiasi città tu ti possa ritrovare: avere dei contatti aiuta anche in questo. San Lorenzo s’era guadagnato tutta la mia curiosità e un’osteria dal nome incongruente e inappropriato, Osteria degli Emiliani o Dei Colli Emiliani, oppure una cosa del genere, era già stata eletta come meta e l’indirizzo impostato sul navigatore. Non avrei fatto la parte del turista inconsapevole, ma avrei indossato le cuffie, fatto partire la navigazione, alzato il volume e lasciato che la gentile signorina mi tenesse la mano per tutto il viaggio fino a destinazione. Avrei fatto finta di ascoltare un po’ di musica, spacciandomi per uno del posto, almeno finché non sarei stato costretto ad aprire bocca.
Quant’è?
Due euro.
Aspe’, che forse li tengo contati.
Ma sei di Napoli?
Il barista mi circuisce, s’accorge della preda debole ed insicura. Mi propone un pasto completo a 7,99 euro e quando gli faccio notare che sono appena le 11.30 non si scompone e mi offre una seconda birra.
Con dieci euro stai una crema.
Per poco non accetto, sento le gambe trascinate da una forza invisibile verso la sedia più vicina. Vorrei lasciarmi cadere, far sprofondare la notizia sotto i piedi, masticare un altro filtro ed accettare l’offerta. 8 euro un pranzo completo neanche alla mensa dell’Università.
Devo andare a San Lorenzo, mi aspetta un amico.
Quando bevo mento. Quando sono in difficoltà mento. Però anche il barista giocava sporco, quindi niente sensi di colpa per questa volta e soltanto un’improvvisa voglia di correre e mangiarmi quei millenovecento metri che mi separavano dall’Osteria. Faccio due conti: se non finisco sotto una macchina in mezz’ora, passo sciolto, sono lì.
Aja, San Lorenzo non è il massimo. Lassa’ perdere.
Ma è un posto pe’ giovani.
Una donna, invisibile fino a quel momento, entra in scena come le grandi attrici di teatro. Illuminata da una luce gialla che le rende il viso bronzeo, mi guarda piena di compassione. Lascialo andare, dicono i suoi occhi grandi.
Se ne sentono di brutte.
Vabbè, ma tanto sono di Napoli. Ci sono abituato.
Mento ancora mentre scrollo le spalle e la signora ride. Il ragazzo al banco neppure un po’: aveva già visto i miei dieci euro trasformarsi in una piccola pallina di fumo verde. Sarà per la prossima, amico. La porta a vetro recita: nuova gestione – happy hour e apericena.
Le strade di una città che non conosco mi sembrano tutte uguali e dopo sei minuti, nonostante la dolce signorina mi confermi che sono sulla strada più veloce, mi pare d’aver girato inutilmente in tondo. I nomi sulle placche di marmo giocano a rendere l’equivoco ancora più reale: non c’è corrispondenza tra quello che sussurra la voce nelle mie orecchie e quello che vedono i miei occhi. Quando dico che reggo l’alcol peggio di una ragazzina non voglio offendere il genere femminile, ma prendermela con me stesso. Ho le gambe pesanti e i piedi stanchi, mi pare di essere in piedi da due giorni. La mia ragazza ha delle strane abitudini: trascorre ore intere su youtube e ingoia decine e decine di video e storie strampalate provenienti da ogni angolo del mondo. La possibilità di concepire un’altra lingua oltre l’italiano le regala un passaporto virtuale che esibisce con disinvoltura. Ha preso una fissazione per il Giappone e adesso anche io conosco ogni più piccolo particolare, ogni più assurdo dettaglio di quell’isola così lontana e così diversa. I corvi di Tokyo, ad esempio, sono spaventosamente e inaspettatamente grandi, aggressivi e neri. Corvi che ti arrivano al ginocchio, prepotenti nel loro verseggiare, con quei becchi aguzzi e gli occhi vispi. Prima di quei video sottotitolati confondevo corvi e gazze ladre, ora non più. Ad ogni passo, sollevata la testa, vedo corvi lì dove prima c’erano macchie di penne indistinte. Milano ha dei corvi di media grandezza, Napoli di piccoli, ma Roma ha dei mostri che somigliano in tutto e per tutto ai cugini giapponesi. Enormi e spavaldi pennuti neri. Ce n’è uno a tre passi da me e secondo la voce gentile della signorina dovrei passare proprio di lì, superare il suo sguardo torvo e attraversare la strada. Sono a meno di trecento metri dalla destinazione, in fondo, oltre l’incrocio, e poi a destra. Tra me e una sedia su cui affondare ci sono solo un paio di occhi neri che mi scrutano senza paura. Non potevo beccare un piccione?
Mi arriva appena sopra il ginocchio, ritto sulle sue due zampette e il collo teso, il becco socchiuso. Se avessi il coraggio di guardarci dentro potrei forse individuare la lingua sottile e lo spostamento d’aria prodotto nel preciso istante in cui, passatogli accanto, decide di fulminarmi le orecchie. Si solleva in volo, batte le ali larghe come quelle di un piccolo aereo da combattimento, e continua ad urlarmi addosso improperi in chissà quale lingua. Non ricordo quand’è che ho iniziato a correre e neppure l’attimo in cui ho svoltato a destra, tra lo strombazzare autorizzato degli automobilisti, e ho percorso gli ultimi cinque metri prima d’arrivare in Osteria. Non ho guardato nulla, né l’insegna, né la porta, sono entrato come attratto da una forza invisibile e spinto dalla paura mortale che quel maledetto potesse beccarmi il sedere. Chiudo gli occhi quanto basta per accertarmi d’essere in salvo. Quando li riapro mi sento di morire.
È un cenacolo di bestemmie: tavolini in legno dalle gambe sbilenche, tovaglie di carta con ricami geometrici in quadrati bicolori, cucina a vista con donna matura in maglietta rosa e capelli lunghi arruffati in uno chignon pisano, cameriere che scrive pizzini assomiglianti a ordinazioni oppure ordinazioni assomiglianti a pizzini, il padrone di casa che legge Il Giornale, la padrona di casa che, seduta al tavolo di fronte la porta d’ingresso – ovvero proprio davanti ai miei occhi – mangia lentamente una pasta mista piselli e pancetta. Guanciale? Trippa? Potrebbe essere qualsiasi cosa e non ho il tempo di soffermarmici, m’aspetto di venir rispedito fuori dal mio corvo e allora mi muovo veloce attraverso la sala. Scopro con piacere che ci sono ben altri tre commensali: un vecchio dalla faccia vinosa seduto in fondo a destra, quasi sotto la grande apertura che dà in cucina, e una coppia seduta nell’angolo di sinistra accanto alla grande vetrata che dà sull’esterno. Del marciapiede si vedono le gambe dei passanti mentre il corpo e la testa sono oscurate da una serie di cose incollate ai vetri: dovrebbero essere claim pubblicitari, loghi di qualche campagna marketing dei primi duemila, scritte in rosso cocacola e altra robaccia. Tavoli singoli non c’è ne sono e l’unico tavolino da due è in fondo alla sala, a metà tra il vecchio color vinaccia e la coppia silenziosa e guardinga. Sono due amanti, penso non appena incrocio gli occhi di lei che mi guardano per un istante solo prima che la testa fulminea si volti di nuovo, viso rasserenato dalla vista di un forestiero. Non vorrei rompere l’equilibrio della sala, avanzo lento, un piede dopo l’altro e la paura di venir notato da qualcuno degli addetti ai lavori si trasforma in desiderio impellente: vi prego, guardatemi, ditemi qualcosa, dov’è che mi posso sedere? Invece sono invisibile e i miei passi sembrano ovattati. Un tavolo di quattro, un tavolo da sei, due tavolini poggiati uno accanto all’altro, e quel tavolo da due poggiato contro il muro. Non mi resta che andarmi a sedere lì, un po’ troppo vicino alla coppia che tuba e al vecchio che emana odori inconfondibili. Mi pare d’aver visto gli occhi neri del maledetto corvo spuntare oltre la vetrata, nell’angolo di marciapiede che s’intravede tra le gambe delle sedie. Distolgo lo sguardo e cerco un menù. Guardo sotto i bicchieri, accanto alle posate, sollevo la tovaglietta rossa e bianca, guardo dentro il cestello del pane, ma inutilmente. Una mano pesante si poggia sulla spalla.
Ti porto da bere mentre scegli?
Un secondo cameriere è comparso dal nulla. È alto, con un paio di baffi ordinati e una divisa piuttosto pulita se non fosse per la vistosa macchia di sugo sull’avambraccio destro. Ha pochi capelli, ma li veste con eleganza, sta in piedi ritto come una statua o un pilone di pneumatici. Ordinato e serio. Non sorride, non apre le labbra più del necessario e anche quando ripete un’acqua naturale non riesco a vedergli neppure un angolo di denti. Nulla. E chiaramente non mi ha lasciato alcun menù. Incrocio lo sguardo della coppia e sorrido. Loro ricambiano e poi tornano a parlare fitto fitto come due appena usciti da un film dei primi anni ’80. Lei, una signora che avrà avuto quarantacinque, cinquant’anni mangia senza fretta sottili fette di insaccato rosa mentre lui, che mi dà le spalle e posso solo immaginare bruno, dallo sguardo calmo e una barba sfatta, ricama forme indistinte nel piattino zeppo d’olio. Poi lo vedo: sul tavolo di fronte c’è un menù di plastica mezzo arrugginito – cosa sono quelle macchie arancioni? – che mi chiama. Mi alzo e faccio un rumore incredibile. La sedia pareva doversi spaccare da un momento all’altro. In simultanea tutti smettono di fare qualsiasi cosa e mi osservano come si osserva una scimmia allo zoo: la padrona di casa ha imbracciato il cucchiaio e dentro ci galleggiano due o tre piselli, il cameriere quello alto si è fermato al centro della sala con la mia bottiglia naturale sotto il braccio, la cuoca ha la bocca semiaperta e a lei le vedo sei denti, la coppia ha interrotto una risata, mentre il vecchio alle mie spalle lascia andare uno starnuto. È il segnale della ripresa, i cuori tornano a battere, afferro il menù, mi incollo al mio posto assicurandomi che la sedia sia tutta intera e lascio scorrere gli occhi sul fitto elenco di pietanze. Quando il cameriere completa i sei lunghi passi che ci separano so già cosa ordinare e non gli lascio neppure aprire bocca, tanto non l’avrebbe fatto comunque.
Una trippa alla romana e due patate lesse, grazie.
Lui di rimando abbassa leggermente il capo, ruota su se stesso e dà voce in cucina.
Una trippa.
E poi torna su i suoi passi, ondeggiando leggermente e lo vedo pescare un paio di patate da un grosso cesto, rifugiarsi dietro un banco da lavoro, aprire l’acqua e prendere qualcosa da un cassetto lì vicino. Seduto al mio posto riesco ad osservare con la coda dell’occhio la coppia che mangia, il vecchio che beve vino, e senza sforzo seguire i movimenti lenti di quel cameriere alto che sbuccia le mie due patate lesse.
Questa camicetta me l’ha presa una mia amica da Londra.
La voce della signora accende una spia d’emergenza: ecco dove mi pareva d’averla già vista ed ecco dove mi pareva d’aver già sentito quella voce squillante ma lamentosa, come di chi deve andare a morire ammazzato ma ci vuole andare con gioia. Me la immagino sussurrare faccio cose vedo gente e inizio a ridere da solo come un deficiente. L’alticcio mi segue a ruota, ride sbattendo i pugni sul tavolo, poi torna serio.
Perché ridi? – mi chiede fucilandomi.
No, niente, mi sono appena accorto che.
La coppia ha smesso di masticare, ha smesso di scambiarsi melliflue espressioni di giubilo e mi sta ascoltando.
Ripensavo ad una scena di un film, un film vecchio, niente di che.
Il vecchio ha smesso di darmi retta, si è versato un altro bicchiere e parla con lui.
Perché hai così tanta fretta di svuotarti?
Signore, pietà.
La trippa.
La voce più dolce è certamente quella di chi vive in cucina, addolcita dai fumi del cibo. L’odore è vita nella sua essenza più cruda. Il cameriere, sempre lui, s’avvicina alla finestra che porta in cucina tenendo un piccolo piattino e nell’altra mano appoggia la trippa fumante. Lascia tutto sul mio tavolo, la trippa e le patate, con un piccolo cenno del capo: dovrebbe essere un buon appetito oppure un favorite oppure un prego, non saprei dire con certezza. Il tempo ha ripreso a scorrere alla giusta velocità nel momento in cui l’odore del sugo mi ha bucato il naso. La lancetta ha rallentato e ogni cosa è tornata al suo posto. Sono in un’osteria con tovagliette a quadri rossi e bianchi, a mangiare trippa alla romana. Il cameriere, un tipo alto e severo, con lo sguardo perso in affari molto più grandi di me, torna al mio tavolo uno di quei macinini che si trovano nelle case delle nonne.
dice e non è un affermazione né un suggerimento, ma un invito non procrastinabile.
Resta a guardarmi finché non maciullo e disperdo nel piatto almeno cento grammi di pepe nero, poi si volta soddisfatto e chiede ai miei vicini.
Gradite altro, signori?
Non saprei – risponde lei – te che dici?
Mah, un po’ di spazio ce l’avrei.
Se volete un secondo abbiamo…
No, andrei più sul dolce – l’interrompe lei – te che dici?
Beh, il dolce non si rifiuta mai.
Allora abbiamo dei bignè, del tiramisù, la torta della nonna – il cameriere indica la padrona di casa intenta ad inzuppare due dita di pane nel fondo del piatto – oppure dei maritozzi che…
Madonna, sì, c’avrei proprio una voglia. Te che dici?
Oh, è periodo proprio. San Giuseppe, non ci mangiamo un maritozzo?
Facciamo due maritozzi allora.
No, aspetta, due? Te lo vuoi intero?
Ah, tu no?
Vabbè, però pure due caffè, ma senza zucchero.
Perfetto, due maritozzi e due caffè. – chiosa il cameriere.
Senza zucchero – aggiunge lei, soddisfatta.
Due maritozzi e due caffè senza zucchero – sorride il cameriere.
La trippa è indescrivibile. La cosa più buona che avessi mai mangiato e scompare in pochi minuti, il tempo di far arrivare i dolci e il caffè al tavolo. Il vecchio si è scolato la bottiglia e adesso chiede anche lui qualcosa per pulirsi la bocca.
Un maritozzo e un caffè corretto.
Come lo facciamo oggi?
Fai tu.
Ci mettiamo sambuca?
Il rubicondo sorride e il cameriere esegue. Le patate si sciolgono sotto i colpi delicati della mia forchetta. È orario adesso e la sala si affolla un po’ per volta e persino la vecchia signora deve cedere il posto, pulisce la tavola e si rintana dietro una piccola e bassa scrivania. Il cameriere, quello calvo che aveva confabulato con lei tutto il tempo, si alza, scompare per due secondi e poi torna con il grembiule avvitato sul davanti. Inizia muoversi tra i tavoli, sorride, porge menù e segna ordinazioni su piccoli fogli a quadretti. Le comande volano in cucina e dalla cucina sbucano piatti fumanti. Terminate le patate ordino un caffè, normale con un po’ di zucchero, ignorando le voci attorno a me.
Questo maritozzo è enorme, vale per due.
Tu l’hai mangiato?
Ieri, l’ho preso ieri.
È enorme.
L’hai assaggiato?
È troppo grande, vale per due.
È come se fossero due.
Il conto, per favore.
La pancia piena è la soluzione a tutti i mali del mondo. I camerieri sono lanciati in pista, ballerini atmosferici e consegnano numeri ai tavoli: niente scontrino, niente ricevuta, soldi lasciati sul tavolo, monete mischiate ai tovaglioli, sorrisi, inchini e di nuovo in strada. Ingoio l’ultima goccia di caffè poi metto mano al portafogli e maledico i miei anni milanesi. Non ho contanti, ne sono certo. Imbarazzo, senso di colpa, vergogna, terrore. E adesso?
Non mi pare di vedere la cassa per cui decido di prendere tempo e andare in bagno, magari è la scusa per osservare meglio l’osteria, sbirciare negli angoli, scoprire la postazione pos, intravedere un cliente estrarre una carta di credito, sentire il metallico tintinnio della cassa. Il cameriere alto mi fa segno dilà e attraverso il corridoio di tavoli ben attento a tutto ciò che mi circonda. Richiudo la porta del bagno sospirando. Non ho visto nulla di nulla. Mi tocca inventarmi qualcosa. La vescica si svuota rapidamente e sono di nuovo in mezzo alla gente.
È disonorevole non avere i soldi per pagare, non mi è mai successo. Mi sono distratto, scappavo da un corvo – no, questo non lo posso dire. Mi potrebbe dire dov’è il bancomat più vicino, dovrei prelevare. Ecco, così può andare. Però devo lasciare il locale, potrei consegnare il cellulare come pegno. Come promessa di un ritorno. Il cameriere severo si avvicina, recupera la tazzina e mi chiede.
Tutto bene?
Un lungo secondo di silenzio in cui tutta la mia vita mi scorre davanti agli occhi e poi se ne va. Avrei potuto vuotare il sacco, dirgli amico abbiamo un problema. Invece no, quella sua serietà è troppo importante per essere spezzata da una mia mancanza: so per certo che avrebbe sofferto troppo per una notizia del genere. Pagare con la carta, poi. Esige e pretende lo scontrino. Lo scontrino lo chiede la finanza. Si respira un’aria fin troppo rilassata, un’atmosfera d’altri tempi, da casa cospiratrice, da riserva comunista anti capitalista. Mi spaccano la faccia se faccio il milanese. E se fingessi una telefonata improvvisa?
Le porto il conto?
Si è avvicinato il cameriere, quello bassino e calvo. Il figlio della padrona, ne sono certo.
Sì, grazie, e mi devi scusare ma ho dimenticato di prelevare e…
Eccolo lo sguardo indagatore che mi aspettavo. C’è un filo di stupore, un po’ d’ansia e il sospetto fondato che lo stia per fregare. O almeno che ci voglia provare.
Mi sai dire dov’è lo sportello più vicino?
E che ci devi fare?
Prelevare per…
Non puoi pagare con carta?
Il surrealismo mi è sempre stato sulle palle.
Ma perché avete il POS?
E non so mai quando devo starmi zitto.
Certo che abbiamo il POS. È obbligatorio.
Indosso la giacca senza fiatare, mi guardo i piedi e seguo il mio carceriere che mi conduce dal boia. Il boia ha la faccia stanca, non dice neppure una parola, ma estrae da un cassetto una macchinetta impolverata. Recupera il foglio dalla mia mano e legge. Sbuffa, afferra la carta, la inserisce e alza lo sguardo come sorpreso da un pensiero improvviso.
Vuole fattura?
No, ma quando mai.
Vabbè, già l’ho fatta.
Questo pezzo di carta giallo pende dalla sua mano e non posso far altro che afferrarlo. Ci sono sopra dei numeri sbiaditi, una data di qualche giorno fa e una somma che in parte restituisce il totale. Faccio finta di niente. Lui torna a digitare sull’apparecchio, preme con insistenza ma la colla si è sciolta per il caldo e i tasti sono troppo duri. Digita uno poi due poi cinque.
Ci andrebbe anche lo zero.
Come?
Così mi fa pagare 1,25 euro.
Ah, giusto.
Sento la rabbia montare nel suo corpo come la lava in un vulcano pronto ad esplodere. Stempero.
Mi spiace, oramai sono sempre in giro e non uso mai contanti. Da quando vivo in Svizzera poi non ho mai un euro in tasca.
Per quale motivo mi sono inventato quest’assurdità? La Svizzera, poi. Con tanti posti nel mondo, con tante valide alternative, proprio lei. Ho trascorso mezza giornata a Lugano, ecco tutta la mia Svizzera.
Ah, sì? E dove? Ginevra? – mi chiede improvvisamente interessato.
La mano si è fermata d’un tratto, con la carta inserita per metà nel POS. Muove solo un occhio, come se un improvviso strabismo si fosse impossessato del suo viso magro. Quello sguardo è una smorfia, con le rughe sottili che gli abbracciano zigomi e guance. Sulla fronte scivolano lente due gocce di sudore.
No, no, Ginevra è una città di banche – lascio andare le parole e l’istinto suicida continua a premere – e finanzieri. – concludo e ridacchio, cercando una complicità che non trovo.
Lui lascia andare un piccolo sospiro, lo strabismo scompare ma la mano non riprende le sue normali funzioni. È ancora bloccata, immobile a metà servizio. I secondi si allungano come code al semaforo.
Sul lago – aggiungo dopo un attimo di esitazione, senza guardarlo e concentrandomi su un calendario sbiadito alla parete: anno 2011.
L’incantesimo si rompe e la mano riprende a funzionare. L’apparecchio suona confermando il buon esito dell’operazione e sul display s’accende una luce verde. Tutto bene, fin qui.
Bella la Svizzera – mi dice con un misto di nostalgia e tenerezza che non riesco ad identificare.
Mi porge la carta e sorride come se la mia faccia somigliasse a quella di un vecchio amico ritrovato inaspettatamente. Non lo interrompo perché non saprei davvero dove andare a parare: ne ho già dette troppe per oggi.
Ci sono stato, anni fa, probabilmente non eri neppure nato. Sono stato a Ginevra per la finale Champions: Roma Barcellona. Che partita.
La mia mente percorre chilometri di informazioni e riferimenti, ma senza riscontrare alcun risultato.
Probabilmente non ero nato, anzi, sicuramente non lo ero.
Ma infatti, dicevo tanto pe’ dì. Era, che anno era Ma’?
La donna i cui occhi avevo incrociato non appena varcata la soglia, la vecchia con i capelli grigio topo e il camice logoro di salsa e punte d’olio, non alza neppure la testa. Rimbomba secco un risucchio rapidissimo.
L’ottantaquattro era, preciso. ‘Er ventinove marzo.
La finale dell’ottantaquattro me la ricordo e c’era la Roma, questo è certo. Una finale persa ai rigori, ma contro il Liverpool e non certo a Ginevra. La lingua freme contro i denti, vorrebbe parlare, ma il sorriso resiste quanto basta per lasciarmi il tempo di ragionare.
Che memoria – sputo alla fine e quell’altro non se ne accorge neppure.
Guarda la madre con occhi innamorati.
La mia mamma c’ha ‘na capoccia. Non se’ scorda gniente.
Dalla cucina arrivano rumori di pentole e coltelli affilati che spaccano ossa e tagliano tendini. Un’altra porzione di trippa, magari da portar via. Saluto in fretta, mi scuso ancora per aver creato disagio, ripeto per l’ennesima volta quella stupida bugia e mi pesto i piedi mentre evito un cameriere silenzioso con un paio di piatti sulle braccia. L’altro, quello che ha visto la finale a Ginevra, è rimasto al suo posto, accanto alla cassa invisibile, e mi osserva andare via. Sento i suoi occhi sulle mie spalle e per distrarmi continuo a guardarmi in giro. C’è un gagliardetto: Virtus Roma c’è scritto sopra. Virus Roma Basket, per la precisione.
Ah, è proprio un tifoso romanista a tutto tondo – gli dico indicando la reliquia inchiodata alla parete. Ha gli stessi occhi della madre: mi guarda come mi guardava lei, senza capire se facessi sul serio oppure no. – Segue anche il basket – proseguo, indicando ancora lo stemma e sorridendo come se un sorriso potesse rendere più giuste le mie parole.
Eccerto che me piace il basket. Sono andato fino a Ginevra nell’ottantaquattro, gliel’ho detto. Finale di Champions tra Virtus Roma e Barcellona, grande vittoria.
Si schioda dalla sua postazione e mi viene incontro: ad ogni passo la sua ombra si fa sempre più lunga e scura. Mi ricopre interamente.
L’ottantaquattro, chiaro, la finale di basket. No, non ero neanche nato. Neppure nei programmi di mamma e papà.
Sorrido e sorrido ancora, quasi rido da solo mentre mi faccio accompagnare lentamente alla porta. È come risvegliarsi a poco a poco da un sogno. La porta che sbatte è il colpo di pistola del giudice di gara sulla pista d’atletica. Fuori la città di Roma mi assale senza ritegno. Mi guardo attorno e ricordo appena dove mi trovo e dov’è che devo andare, ma sopratutto perché ci ero venuto. La trippa ribolle ancora nello stomaco, ne avrei presa volentieri un’altra porzione. Magari da portare via.
Pronto? Ma che fine hai fatto?
La voce femminile dall’altra parte del telefono ha l’affanno. Il corvo gigante mi sta guardando, accovacciato sul cofano di un’automobile dall’altro lato della strada. Gracchia e ricomincio a correre.

Nato a Napoli, cresciuto come ingegnere finisce per trasferirsi a Milano e lavorare come ghostwriter. Ha frequentato un master in scrittura creativa, suoi racconti sono apparsi su Crapula, Ammatula, Lahar, Verde, Tuffi, Narrandom, GradoZero, ReaderForBlind, Pastrengo, Firmamento, et al. A breve pubblicherà il suo primo romanzo.