Blackbird
Tutti i giorni era lì a salutarmi con lo sguardo, tutte le sere col suo canto mi faceva addormentare. E così passava il tempo, passavano i mesi.
Non l’ho mai visto lontano dal suo ramo, sempre immobile, tanto che le prime settimane credetti fosse impagliato e pensai ad un qualche scherzo dei ragazzi che il pomeriggio giocavano nel parco, fino a quando non lo udii cantare per la prima volta.
Non sarei dovuta essere fuori a quell’ora, non rientrava nella mia routine e, soprattutto, il mattino seguente mi sarei dovuta svegliare all’alba, invece ero lì.
Era un canto dolce e allegro che quasi stonava in quel silenzio malinconico, fuori tempo rispetto al ritmico bubolare dei gufi rovinando quella sinfonia che creavano con il frusciare delle foglie mosse dal vento.
Eppure era bellissimo.
E così ogni sera aprivo una finestra, quella del salotto perché era l’unica che dava sul parco, e rimanevo in ascolto finché non prendevo sonno.
Ricordo quando decisi di spostare il letto e lo misi al posto del divano e viceversa perché ormai quella era la mia camera. Per fortuna era estate e abitavo all’ultimo piano del condominio o non avrei potuto aprire la finestra, si capisce.
Poi, un giorno lo vidi e mi chiesi perché non si muovesse dall’albero, non mi ero più posta la domanda dal momento in cui il suo canto mi aveva ammaliata. Perciò, tornata dal lavoro, mi fermai e feci la cosa più logica che mi venisse in mente: glielo chiesi. Senza starci a pensare, lasciando stare le formalità e andando dritta al punto, in fondo, ascoltando ogni sera il suo canto mi pareva quasi di averlo sempre conosciuto e non pensai al fatto che forse lui non sapeva chi fossi io. E subito mi rispose, forse solo per cortesia e spiegò le ali rimanendo immobile in modo che potessi osservarle; era troppo in alto perché lo vedessi bene ma abbastanza in basso perché potessi scorgere parecchie ferite sulle sue ali.
Gli dissi che si sarebbe potuto far curare ma mi fece notare leggermente seccato lo stato in cui era; poteva sempre andare a piedi, ribattei io, ma di nuovo mi mostrò le sue ali e, tanto per enfatizzare, aggiunse anche gli occhi con i quali non vedeva molto bene: avrebbe potuto rischiare di attraversare con il rosso.
A quel punto lo salutai e lo ringraziai di aver perso del tempo per venirmi dietro e spiegarmi pazientemente la situazione.
Che domande mi ero posta!
Così passarono le giornate e ogni sera sentivo il canto della giovane donna appollaiato nel mio nido prima di addormentarmi.
Non avevo nessuna intenzione di andarmene da lì.
Immagine: Giada Patron Zennaro

Allora…
Mi chiamo Giada sono nata a Venezia e ancora per i prossimi due mesi ca. avrò diciassette anni. Da quando ho iniziato a leggere ho sempre voluto scrivere. La potrei definire una cosa di famiglia: mia madre scrive racconti brevi e gestisce un corso di scrittura e mio padre…beh, inevitabili papiri su WhatsApp con i nuovi capitoli sfornati (in genere fra mezzanotte e l’una). Poi, se volessi tirarmela, potrei anche citare Giacomo Ca’ Zorzi, meglio conosciuto come Giacomo Noventa che, perdonatemi la citazione da Wikipedia fu un “poeta e saggista italiano”. Ma, come dicevo, non voglio tirarmela. Non ho nient’altro da dire e, per il futuro, “que sera sera”.