Balena Azzurra
Cammina in punta di piedi, quasi sussurra un’ultima preghiera. Una protagonista come tante del nostro tempo, una ragazzina, s’inerpica sul tetto di una torre altissima rapida come un’ombra, delicata e fuggevole come la sua vita.
Giù dalla nuova torre a sud della città, guardando verso la laguna, Gloria capisce che ha davvero allargato le braccia e si è buttata.
È sul serio un momento interminabile e carico di adrenalina, come le hanno detto, ma non si immaginava che sarebbe stata così lucida. Ha espanso al massimo il torace e sentito l’aria scivolare sulla pelle e penetrarle nelle narici in una corrente parallela al respiro.
Non sente niente, le hanno garantito anche questo, deve averlo fatto nel modo giusto, dominando l’esperienza, la postura compostamente allineata sul cornicione, i vestiti ripiegati, solo i sandali addosso e il cellulare spento, lei ha soltanto levato i toni. Ha proceduto senza lasciare niente al caso, o alla paura del vuoto, o alle ustioni ai piedi sul cemento infuocato o ai ripensamenti.
Si trova a fluttuare nel cielo come un aquilone, un volo a planare in piena regola, non in picchiata come credeva. È un ritardo leggerissimo, non previsto, una pausa che dura una frazione di secondo. In quella posizione, praticamente orizzontale sopra i tetti, i lastrici dei condomini coperti di pannelli solari sono uno schermo dove riesce a vedere il suo passato. Le tornano in mente degli episodi, immagini baluginanti nel riverbero del sole: una bambina in pantaloncini corti sui pattini che va a prendere il pane; una signora isterica che urla che la cena è pronta e le dice di preparare la tavola; un signore alto e con la barba, con la voce tranquillizzante, che le accarezza i capelli sulla porta di casa; una grande auto grigia, stipata di valigie, che esce dal vialetto del giardino; il signore con la barba che non torna più; una casa popolare, una casa senza portone; un cortile che la bambina con i pattini frequenta di giorno, tra le urla della signora isterica; un funerale deserto, una misera cassa da morto; una casa diversa ancora, due anziani sorridenti; la bambina senza i pattini ora che studia in cucina; una scuola, centinaia di ombre senza nome e gli spintoni all’uscita; un ragazzo e una ragazza che la prendono in giro; l’ambulatorio di un ospedale; un occhio pesto; la sospensione; il preside che dice spropositi; le passeggiate solitarie di solitarie mattine; uno zainetto a brandelli, una ragazza raggomitolata alla fermata del tram; la donna anziana che esce a fare la spesa da sola perché la ragazza è sempre chiusa in camera; un video e una voce che dà le istruzioni; tagliati il labbro; altre istruzioni; procurati dolore; un presagio alla rovescia, tutto quello che non hai avuto è racchiuso in un volo; tieni gli occhi aperti; un biglietto scritto su carta sottile; due cuoricini e un addio, sul comodino.
Non sente davvero niente, salvo la carezza folle dell’aria, e un’inaspettata nostalgia per colpa di quelle cose. Prima che il momento possa travolgerla, si concentra di nuovo sulle istruzioni. Conta fino a tre, fino a quattro, cinque, conta tre, arriva a quattro. Deve tenere il viso rivolto al sole in posa sacrificale, inarcare la schiena all’estremo fino a toccare con la testa le caviglie, solo l’aria deve riempire il vuoto del suo corpo. Esegue alla perfezione, si contorce ad anello, a forza di avambracci e di un movimento di spalle, un gesto sproporzionato, ma anche aggraziato, collegato in forma coerente al destino che si è scelta. Quando arriva in fondo, è un fascio rotolante e compatto di muscoli e di tendini. I pensieri non attecchiscono, i volti scivolano via. Contrae le labbra in un sussurro di riconciliazione, e sgrana gli occhi inondati di polvere e di lacrime.
Racconto pubblicato su Rivista Foga (2018)
Immagine: Beillija

Legge sempre, insegna e traduce l’inglese. Nella sua precedente vita ha pubblicato saggi in ambito accademico tra cui Geografie letterarie (Meltemi). Alcuni dei suoi racconti sono contenuti in raccolte e riviste nazionali.