Azzurro
Fatima amava l’azzurro. Era il suo colore preferito fin da quand’era piccola; azzurro come un cielo terso, azzurro come la sua voglia di volare.
A sette anni aveva avuto un pesciolino, trovato quasi morto dentro il secchio d’acqua vicino al pozzo. Gli aveva dato da mangiare pezzettini sminuzzati di insalata, perché la sua amica Sasha aveva sentito dire che i pesci mangiavano una strana erba che cresceva nel mare e l’insalata era l’unico cibo verde che conosceva. Lo aveva chiamato Azzurro, anche se Sasha sosteneva che avrebbe dovuto chiamarlo Verde. Era morto dopo soli quattro giorni, ma erano stati i quattro giorni più belli della sua vita. Così adesso, schiacciata tra mare e cielo, l’azzurro l’avvolgeva teneramente come una coperta e tutto sembrava migliore.
– Dove finisce il mare, Fatima?
Le labbra di Amir erano aride e secche, piene di tagli. Suo padre gli aveva proibito di bere l’acqua di mare – rendeva pazzi, diceva – ma anche se avesse voluto il bruciore a causa del sale sarebbe stato insopportabile.
– Il mare si estende per chilometri e chilometri, bagna tutte le terre e rispecchia tutti i cieli, finché non si trasforma in un’enorme cascata ai confini del mondo.
Suo fratello alzò quanto poté la testa dal suo grembo, sporgendosi un poco oltre il bordo scrostato della barca. L’acqua era così limpida e cristallina sotto di loro. Nessun pericolo, nessun inganno. Sembrava quasi impossibile che potesse portare morte.
– E dove finisce la cascata, Fatima?
Accarezzò i ricci morbidi di suo fratello, arrotolandone alcuni in corte spirali sulle dita. In quella barca erano rimaste solo pelli secche, cuori aridi e occhi vuoti, ma i capelli di Amir erano ancora lucidi e setosi come quando giocava con i suoi soldatini di legno sulla strada davanti a casa.
– L’acqua cade nello spazio, sempre più giù, finché non arriva su altre galassie, altri pianeti.
Fatima da grande avrebbe voluto fare l’astronauta. Gliene aveva parlato per la prima volta una di quelle giovani donne con la croce rossa sul petto, quella più bella, con tutti quei ricci dorati pendenti sulla fronte.
– Voli dentro una navicella dove puoi camminare sul soffitto e saltare senza fatica e, una volta superata la terra, non rimani che tu e il cielo. Dicono che finché sei lassù, sei tu il padrone dell’universo.
Quando lo aveva confessato a sua nonna, i suoi occhi lattiginosi l’avevano sgridata con disprezzo.
– Non devi provare desiderio per qualcosa che non potrai mai fare, o il Diavolo si vendicherà per la tua arroganza”.
Fatima pensò a sua nonna e al suo corpo spezzato sotto le macerie della sua stessa casa. Alla fine, nessun Dio l’aveva premiata per non aver sognato un futuro migliore.
– Nessuno verrà a prenderci, è troppo tardi ormai.
L’uomo che aveva parlato fissava con sguardo sereno il mare, ma le sue mani grattavano incontrollate i bordi di legno della nave.
– Non interessiamo a nessuno, siamo solo carne in più da far respirare e mangiare.
Fatima accolse Amir nell’incavo del collo e ne nascose il viso con i capelli.
– Non dire così, Hamisi.
Una donna gli circondò la vita con le braccia e si lasciò cadere sulla sua spalla.
– Spero solo che facciano presto. Quando Atsu si sveglierà avrà di sicuro fame.
L’uomo passò le dita tra i lunghi capelli color ebano della moglie, le sfiorò leggero le scure occhiaie sul viso incavato. La guardava come si guarda un giocattolo rotto.
– Atsu non avrà più fame.
– Ma cosa dici? Certo che avrà fame, non mangia da due giorni ormai! Ma tuo cugino ha detto che là sulla terra hanno latte caldo e biscotti e strani frutti dolci, potrà mangiare quanto vuole.
Scostò leggermente la coperta marrone che circondava come un bozzolo il suo piccolo bambino, accarezzandogli le guance pallide come se fosse fatto di cristallo.
– Manca poco amore mio e sarà tutto finito.
Il bambino non si mosse, ma la sua risposta silenziosa era ben visibile nella piega innaturale delle gambe, nell’immobilità del petto; era già tutto finito. Fatima strinse Amir ancora più forte al petto e avvicinò l’orecchio alla sua bocca, assicurandosi che il respiro fosse ancora regolare. Nulla di quello che era successo assomigliava al racconto di sua madre. Le aveva promesso grandi palazzi grigi e rossastri in cui avrebbero vissuto tutti assieme, pezzi infiniti d’erba verde dove correre, carne cotta e formaggi morbidi come pane. Suo padre avrebbe trovato un nuovo lavoro, mentre lei avrebbe finalmente imparato a leggere quei grandi quaderni pieni di figure e scritte, quelli che le avevano fatto vedere le infermiere con la croce rossa. E Fatima le aveva creduto, aveva davvero sperato che la vita avesse deciso di essere buona con lei.
L’immagine luminosa di un nuovo, meraviglioso, sconosciuto futuro l’aveva accompagnata lungo tutto il viaggio attraverso il villaggio e quando aveva intravisto in lontananza la barca bianca e rossa galleggiare speranzosa sopra l’acqua, l’immagine era diventata così vivida, pulsante e vera che le era sembrato d’avere un sole che le camminava affianco. In un certo senso, sarebbe stata la sua prima esperienza da astronauta: un nuovo mondo tutto a sua disposizione, da esplorare come un universo pieno di stelle.
Ora, accasciata tra decine di corpi vuoti, Fatima si chiedeva perché sua madre non le avesse raccontato anche della puzza di sangue e vomito, che neppure l’odore della salsedine riusciva a coprire, delle centinaia di donne, uomini e bambini abbandonati vicino alla carcassa dei loro sogni, delle lacrime che, anche quando erano finite, continuavano a premere agli angoli degli occhi. Dell’agonia, del dolore lancinante che ti apre il petto mentre l’ultima speranza, quella più bella, quella più preziosa, viene distrutta a pochi passi dalla fine. Fatima si chiedeva perché sua madre non le avesse detto che non sarebbe stata là a soffrire con lei.
Ad Amir aveva detto che i loro genitori erano saliti su un’altra barca e probabilmente li stavano già aspettando a terra, un’enorme borraccia d’acqua fresca in mano. A se stessa Fatima aveva detto che erano rimasti a sorvegliare la casa in attesa che la siccità finisse e le puntine verdi del raccolto spuntassero vergini dalla terra. Allora sarebbero venuti a prenderli e tutto sarebbe stato più facile. Più tardi, avrebbe scoperto che erano rimasti schiacciati dalla folla mentre cercavano di salire a bordo, abbandonati in riva del mare come animali selvaggi.
– Fatima, quando arriviamo?
Fatima guardò l’orizzonte e quello gli restituì la solita distesa d’acqua.
– Non ti preoccupare Amir, non staremo qui ancora per molto.
Fatima restò seduta contro il bordo della barca per altri due giorni. Le ossa si erano fatte pesanti, i muscoli incollati gli uni agli altri. Respirare era sempre più difficile, lasciarsi scivolare nell’incoscienza sempre più facile. L’unico momento di sollievo era stato quando Hamisi le aveva ceduto i tre pezzi di pane e la porzione d’acqua di sua moglie; nemmeno lei avrebbe avuto più fame. Aveva tenuto gli occhi puntati verso Nord, in costante, eterna attesa. Amir tremava nelle sue braccia. Quando poi il profilo confuso di una barca in avvicinamento aveva arricciato l’acqua in lontananza, gli occhi le bruciavano così tanto che riusciva a stento a tenerli aperti. Non capì molto di quello che successe dopo, sentiva solo Amir agitarsi lì vicino e qualche grido d’aiuto levarsi da prua.
– Da questa parte, con calma!.
Era una lingua straniera, uomini dal timbro profondo e sconosciuto, ma lei la riconobbe lo stesso: era la voce della speranza.
– Ce ne sono altri qua!.
Le urla aumentavano sempre di più, un coro straziante di moribondi che si alzava al cielo. Li sentiva, i pochi sopravvissuti del mare, mentre come animali guaivano e si azzannavano per mettersi in salvo, ognuno per sé, senza ritegno per i più deboli.
– Fatima!
Si sentì sollevare da terra nell’esatto istante in cui l’urlo di Amir le riempì le orecchie. Le gambe pendevano nel vuoto e, mentre fluttuava senza peso, le sembrava quasi di volare. Si rese conto di non essere più nella barca perché l’odore di vomito era sparito, sostituito da uno più forte, chimico e pungente.
– Circa quindici anni, in stato di disidratazione. Ha perso coscienza.
Voleva alzarsi, voleva prendere in braccio suo fratello e dirgli ancora che tutto sarebbe andato bene ma tutto ciò a cui riusciva a pensare era casa. Perché ne era sicura, avrebbe abbandonato tutto in un istante se solo avesse potuto tornare lì da dov’era scappata. Ritornare a una casa con il tetto a metà, all’acqua sporca nel pozzo, alle strade fangose e alle vecchie del villaggio sedute tra la polvere. Ritornare di fronte al sorriso storto di sua madre, all’espressione falsamente austera di suo padre.
– È tua sorella?
Amir stava piangendo, un uomo con un giubbotto arancione lo abbracciava sorreggendolo per le braccia. Fatima poteva quasi vederlo, il suo brillante futuro che ora splendeva vicino al petto di suo fratello. Almeno non era stato sprecato, almeno lui avrebbe vissuto in grandi palazzi grigi e rossastri, corso a piedi nudi tra l’erba verde, mangiato carne cotta e formaggio morbido fino a scoppiare.
Lo guardò per l’ultima volta. Nei suoi occhi grandi si era raccolto il cielo.
E per un istante, fu lei la padrona dell’universo.
Immagine: Daphne Populiers

Classe ‘95, ho iniziato a leggere e a scrivere fin da quando ho potuto. Sono arrivata alla finale del Campiello Giovani (2013) specialmente grazie a Jane Austen, alle sorelle Bronte e al Romanticismo Inglese, ma la verità è che non ho mai saputo tenere un libro chiuso tra le mani.