Le lacrime del vento
Un uomo solo. Con le sue fragilità, con le sue poche certezze, con una storia da raccontare. Un uomo da ascoltare e da immaginare nei suoi incontri casuali, nel suo non arrendersi, nel suo passare senza fermarsi mai. Un uomo senza nome, con troppo passato alle spalle per potersi regalare l’illusione di un domani migliore.
Mi sono trasformato in un gatto randagio. Se trovo da mangiare mi fermo, altrimenti passo oltre. Non chiedo, non troppo almeno. Uno sguardo e via. Se capita che qualcuno risponda al mio sguardo, provo a tenerlo qualche secondo in più per vedere come va. Altrimenti via.
Mi piace il mio silenzio, l’indosso come un cappotto, mi tiene caldo. Perché è un silenzio che sento dentro anche quando parlo, con altri che ascoltano voglio dire, che mi fa compagnia tutto il giorno, tutti i giorni. È uno stato naturale. Perciò mi piace, perché non va spiegato. E’. Chi non capisce può tranquillamente cambiare strada. Non ho bisogno di qualcuno accanto. No, non è vero, ma è vero che per ragioni varie non ho più vicine le persone che mi piacevano di più. Sono tutte altrove, in tanti altrove.
Forse è più giusto dire così: non ho bisogno di chiunque.
E col tempo, con gli anni che passano, le cicatrici che aumentano, le spalle che s’incurvano, capelli bianchi qua e là, umore in altalena, divento sempre più esigente. Oddio, non che ci sia la fila fuori dalla mia tana. Con gli anni si diventa invisibili. Lo stupore semmai è trovare qualcuno che allunghi una mano, che voglia sentire la tua voce, un tuo giudizio, ancor più raro qualcuno che abbia voglia di sentire il tuo odore. Poco male, si vive anche senza. C’è altro, altro magari arriverà, tra un giorno, un anno, mai… boh. Non lo so, non voglio nemmeno saperlo. Per anni sono andato avanti teorizzando la necessità di non pensare-progettare-prevedere più in là delle 24 ore. Troppe 24, facciamo dodici. Facciamo sei. Facciamo che ne ho piene le palle di questi discorsi. Facciamo che la vita me l’ha messa in culo e che non m’è piaciuto. Facciamo che non cerco vendette o riscatti, ma neanche inutili rischi.
Perché è vero, it’s dangerous to lean out – è pericoloso sporgersi, come c’è scritto su questa targhetta. Ma come fai a vivere allora, la vita è tutta un rischio, sposarsi è un rischio, avere figli è un rischio, lavorare, passeggiare, andare in macchina è un rischio, persino esprimere un’idea o restare senza un soldo, elaborare un lutto, scoprire un inganno, perdere la fantasia è un rischio, come si fa senza la voglia di giocare, senza più riuscire a lasciarsi andare, a chiudere gli occhi con un sorriso… come si fa?
Si fa. Se sei costretto si fa. E sai che ce n’è tanta di gente che sta clamorosamente peggio di te. Perciò mi tengo il mio cappotto di silenzio, i miei pensieri in testa, la mia barba lunga, il mio maglione a collo alto, quando fa abbastanza freddo. Come stai, abbastanza bene grazie. Ed è vero, non mi piace mentire, abbastanza è una linea di confine molto soggettiva, ti permette quasi sempre di non spiegare oltre. Benino è peggio. Cosiccosì è peggio. Abbastanza è abbastanza da non far preoccupare chi te lo chiede, sempre ammesso che la domanda sia sincera, che davvero chi ti chiede voglia sapere come stai.
E comunque, io sto abbastanza. Ho tutto quello di cui ho bisogno. No, non è vero. A volte mi capita di non essere del tutto sincero con me stesso.
Ora però basta, niente giochini, verità pura, cruda.
Dicevo, ho quasi tutto quello di cui ho bisogno. Ho un tetto, quello sì. E pasti sufficientemente regolari, e se magari ne salto qualcuno il mio corpo ringrazia, perché ho capito che prima era troppo, era tutto troppo, troppo cibo, troppo alcol, troppo chiasso, troppa tv, troppe convenzioni, troppe maschere, troppe comodità, corpi che rammolliscono, muscoli che si imballano, nervi flosci, sangue che rallenta, torpore, noia, profondissima noia. E alla fine magari ti capita quello che è capitato a me.
E comunque no, non tornerei indietro. Quel confine l’ho superato, pagina voltata, oplà, in piedi dall’altra parte, come un ginnasta alla fine del suo spettacolino, scimmietta ammaestrata a volteggiare, a sfidare la gravità, a trovare armonia in una caduta, a ribaltare le proporzioni, a stupire chi guarda, tranne il tuo allenatore, lui sa che puoi, lui che ti ha plasmato a sua immagine e tecnica, che ti fa arrivare laddove lui non può più, ammesso che sia mai arrivato alle tue vette. Dovere professionale o rimpianto, vai a capire dov’è la verità.
Così esegui, meccanicamente, professionalmente.
E sapete a cosa pensa un atleta quando esegue un esercizio? Facile, all’esercizio. Si concentra. Fidatevi, so di cosa parlo. E il difficile non è tanto eseguirlo, ma capire sempre dove sei, anche se la spinta ti porta a tre metri da terra, anche se sei a testa in giù, anche se vai a una velocità che ti si confondono gli occhi e lavori solo con le sensazioni, le vibrazioni, l’istinto di pelle. È tutta una questione di equilibri, di punti di riferimento, e questo vale sempre, nella ginnastica, come nella vita. Non conta tanto dove sei o cosa stai facendo, ma la tua consapevolezza, il controllo di te. Se c’è, il rischio è minore. Se il salto mortale lo fai perché tu vuoi, di solito non è mortale.
Il rumore mi dà un po’ fastidio.
Anche perdere l’equilibrio mi dà fastidio, e a volte mi capita, soprattutto quando cammino nei corridoi. Però mai per colpa mia.
Mi piacciono i corridoi, mi piace perché sembra che non debbano finire mai, ce n’è sempre un altro, come un domani, come un futuro. E mi piace buttare dentro lo sguardo e guardare le persone, i loro occhi che si girano a guardarmi, senza parlare certo, solo curiosità. E io so che dietro ognuno di quei volti c’è una storia che meriterebbe d’essere raccontata, o ascoltata. Anche solo osservata. In fondo, chi è che lo diceva? la storia siamo noi, noi uomini, donne, bambini, pensieri, desideri, sconfitte, vittorie, entusiasmi, felicità, disperazioni, dolori. Siamo noi, di questo parliamo sempre, a questo pensiamo in maniera ossessiva, ripetitiva, almeno io, io che non riesco a staccare la spina, che questi pensieri mi girano nella testa a una velocità supersonica, nemmeno fosse davvero un esercizio al corpo libero, rondata, flik flak, uno due tre cinque e via, lo stacco finale, il salto mortale e giù, piedi a terra, uniti, perfettamente uniti e braccia larghe, e busto eretto e sorriso, sì un bel sorriso, magari anche con i pugni chiusi nelle occasioni importanti, aspettando l’applauso del pubblico, che fa piacere riceverlo, sempre. Anche ai gatti randagi, come me.
L’altro giorno si è avvicinata una tipa. Era parecchio che non capitava, di solito la gente mi gira al largo, forse perché s’intuisce che io preferisco restare solo. Non era giovanissima. Ed era agitata, non so bene cosa mi stesse chiedendo parlava così veloce, nemmeno la capivo, agitava le mani, mostrava la sua borsa, si voltava a destra e a sinistra, e quasi urlava, evidentemente c’era qualcosa che non capiva, un’urgenza. Più delle parole che urlava, di lei ricordo i capelli di un colore indefinibile, vicini al beige, forse bianchi con qualche colorante scolorito sopra. Mentre gesticolava, li scuoteva e le ciocche andavano di qua e di là come sferzate, arrivando esattamente a colpire il lobo dell’orecchio opposto. Sembrava un metronomo. Ipnotizzante. Ma è durato poco, non le ho dato molto retta, e sempre tenendola d’occhio mi sono allontanato, giù per il corridoio, non mi piace la gente che urla, non mi piace chi pretende d’imporre la propria presenza, chi sei, perché le tue esigenze dovrebbero essere più importanti delle mie, ma io mica vengo a chiederti niente, e allora ognun per sé, e Dio a tutti, come direbbe quel proverbio, ma lasciamo stare Dio che è meglio, meglio non aprirlo nemmeno quel capitolo lì, che va a finire che dico qualcosa che dà fastidio, ma allora anche voi non dovreste dire niente. Beh, sappiate che non voglio neanche ascoltarvi, perché Dio è una gran fregatura, ecco, sapevo che alla fine l’avrei detto, qualsiasi Dio, chiamatelo come vi pare ma resta una fregatura, un’invenzione, una balla senza capo né coda, che io mi chiedo come è possibile che tanta gente al mondo possa andar dietro a questi pifferai, a questi ciarlatani che continuano a blaterare dell’altro mondo, ma cosa ne sanno loro, su cosa si basano, e poi non hanno dubbi, mai, questo è così, quest’altro ti capiterà colà, e attento che se tu non fai, se tu non credi questo ti capiterà, e sono sempre cose terribili, come bruciare per l’eternità.
Io invece i dubbi ce li ho. E sono tanti.
Per esempio: chi incontrerò nel prossimo scompartimento? Sarà vuoto o ci sarà un sorriso? Altro dubbio: dove troverò domani il mio equilibrio? Oppure: sarò in grado di abbracciare qualcuno?
Non sono dubbi da poco, almeno per me. A queste domande vorrei trovare risposta, non a quelle sull’altro mondo, dell’aldilà non m’interessa proprio nulla. Ma non pensiate che io abbia fretta, no, davvero, ho tutto il tempo, non ho molto altro da fare. Sì certo, i miei giri, ma nulla che mi porti ad avere l’ansia della risposta. Che poi non ho ancora capito chi dovrebbe darmele queste risposte, se non la vita, perché vivere è andare sempre avanti, sempre, magari non a grande velocità, ma fermarsi è impossibile. E quando vai avanti capita anche di trovare risposte, ma nel frattempo le domande crescono, cambiano, si modellano a quel che hai intorno, e sono diecimila, centomila, e capita a volte che ti senti solo, io almeno mi sento molto solo, molto.
E la spalla comincia a farmi male, capita sempre quando il freddo diventa più cattivo. E qui stasera fa un po’ freddo, più di ieri. Tengo le mani in tasca, niente guanti, mi dispiace, mai più guanti, da quel giorno, maledetto giorno. Ma era un’abitudine, una sciocchezza che mi sembrava senza la minima importanza, come prendere il tè con o senza zucchero, o la scelta del colore del maglione. Cosa potevo saperne io che era così importante? In fondo bastava poco, non si guida con i guanti, punto, facile, secco. Ma nessuno me l’ha mai detto, mai, nemmeno mia madre, che pure me ne diceva di cose. Così usavo i guanti per guidare, come per camminare quando uscivo, mancava poco che me li mettessi pure la sera per andare a letto. Perché il freddo alle mani proprio non ho mai imparato a sopportarlo. Ai piedi sì, sulla faccia sì, sulle mani no. Ai piedi calzini, sulla faccia la barba, sulle mani i guanti, fino a quella volta. Ora no, mani nude, non posso fare altrimenti.
E non guido più. Non so nemmeno se potrei, nel senso che di sicuro la mia patente è scaduta, quello che non so è se potrei rinnovarla, se dopo l’incidente me l’hanno ritirata, revocata, cancellata, non saprei nemmeno usare il termine esatto per chiedere. Ma non m’interessa, non guiderò più in vita mia. Ho perso troppo in una frazione di secondo per rischiare ancora. E rischiare non lo dico per me, che in fondo ormai rischierei solo la mia pelle, che vale poco o niente, no, dico per gli altri, rischierei magari di far male a qualcuno, di far piangere qualcuno, io che già ho fatto male, io che già ho fatto piangere. Perché i dolori, le tragedie, viaggiano come le onde, non toccano solo i protagonisti delle vicende, ma si propagano ai più vicini, e poi a quelli un po’ meno vicini, e poi ancora ai più lontani, certo con diverse intensità, perché è vero anche che la fonte del dolore è come il fuoco, più ci stai vicino più brucia, più l’affetto ti lega più l’ustione dell’assenza fa male, più lascia cicatrici. A volte nemmeno vanno più via e resti sfigurato.
La velocità mi piaceva. Anzi, a dirla tutta mi piace ancora. Come da ragazzino quando andavo in moto, senza casco, i capelli leggerissimi che volavano via, le lacrime del vento e un sorriso che non riuscivo a togliermi dalla faccia, una specie di felicità data esclusivamente dal trovare equilibrio nella velocità. Dal fatto che riuscivo a governarla, a domarla. La moto e la velocità. Più veloce andavo più un brivido di adrenalina mi saliva dentro. E se guidavo una macchina, testa fuori dal finestrino e vento in faccia, a schiaffo. Non ho mai provato l’effetto di droghe, ma immagino sia qualcosa del genere. Comunque, a me faceva questo effetto.
Bella la velocità. In moto invece non ci salgo più. Neanche in macchina. Non ho più toccato un volante da quel giorno, da quel giorno che indossavo i guanti. Da quella volta che dovevo girare per seguire la strada, ma la lana dei guanti mi ha impedito di far presa sul volante. Così non ho sterzato, anche se avevo visto e capito che avrei dovuto. E subito. Gesto fatto, gesto inutile. Hanno girato solo le mie mani, il volante no. Così siamo andati dritti verso quell’albero, un metro almeno di diametro, che qualcuno, chissà quante decine d’anni prima, aveva deciso di piantare proprio sul gomito della curva, o forse la strada l’avevano fatta dopo proprio per assecondare l’andamento degli alberi. Comunque era lì. E io andavo veloce, come al solito. L’ho visto, per tempo. Però non sono riuscito a sterzare.
L’abbiamo preso in pieno quell’albero, una botta pazzesca, un rumore che non saprei come descrivere. Il rumore più forte che abbia mai sentito in vita mia, seguito dal più denso silenzio che abbia mai ascoltato. Era tutto inzuppato di silenzio, la mia testa, i miei vestiti, da fuori non arrivava nemmeno un filo di rumore.
Eppure non doveva essere così.
Mi aspettavo le grida di mamma, cos’hai fatto, ma è possibile che devi sempre correre come un pazzo, e poi piove, quante volte te l’ho detto, in effetti me lo ripeteva di continuo, ma io si e no l’ascoltavo, quasi mi divertiva quella sua paura, mi faceva sentire più grande di quel che ero, anche se in fondo mica ci credevo tanto che ne avesse, di paura dico, secondo me diceva così per dire, perché i genitori qualcosa ai figli devono pur dirla, qualche rimprovero, qualche consiglio sostenuto, fa parte del ruolo.
Mamma però non parlava più. Era immobile, seduta sul sedile accanto a me, le braccia giù, la testa fuori dal finestrino tutto storto, come appoggiata su quelle stalagmiti di vetro. Il problema vero però era il parabrezza che da dov’era, era arretrato fino a toccarle lo stomaco, il montante voglio dire, il vetro non c’era più, esploso come una bomba. La nostra macchina, davanti, non c’era quasi più. E poi il sangue, troppo, soprattutto dalla testa.
Provai a muovermi, ma dalla spalla mi arrivò una fitta che avrei potuto urlare, o forse urlai davvero, chi si ricorda. Ma non riuscivo più a muoverla, ho capito subito che qualcosa d’importante s’era rotto. E il primo pensiero, lo ammetto, è stato per la ginnastica, per la gara che avrei avuto di lì a qualche giorno, una gara internazionale, roba seria. Mi ero preparato con scrupolo, come sempre. Ma con quella spalla ridotta così probabilmente non avrei potuto. E la cosa mi seccava parecchio. Sangue ne avevo anch’io addosso, negli occhi, in bocca. Mi ricordo il sapore, poco altro. Provai a spostare il peso sul sedile, a muovere il bacino, ma ogni mossa era una fitta, ogni sforzo di movimento un’assenza di riscontro, partiva il comando alla spalla, alzati, ma quella restava lì, inutile, a farmi un male da svenire. E infatti svenni. Persi coscienza mentre tentavo di sganciare la cintura di sicurezza. Mi risvegliai altrove, pieno di tubi e di fasciature.
Per mia mamma, mi spiegarono poi delle persone che non conoscevo, non c’era stato niente da fare. Neanche per il mio fratellino, che avevano trovato lì vicino, ma fuori dall’auto, se devo dirla tutta non ho mai capito fino in fondo la dinamica dell’incidente, ammesso che ora abbia importanza saperlo. Comunque quelle persone mi hanno ripetuto più volte “sul colpo” e “non hanno sofferto” e scuotevano la testa come a dire incredibile, proprio non si può credere a quello che è successo.
All’inizio nemmeno io riuscivo a crederci. Poi però ho capito che ero rimasto solo.
Solo.
Non è stato un bel momento. Come se in una frazione di secondo avessi percorso centinaia di migliaia di chilometri, non chiedetemi se avanti o indietro, non saprei. Comunque altrove. Sparato via come una palla di cannone, via dalla mia vita, la ginnastica, le gare, via dalla mia casa, via dalla mia famiglia, dai miei affetti. Senza più un avvenire, senza più una rete dove atterrare. Senza più un applauso da raccogliere.
E tutto per colpa di un paio di guanti. Proprio vero, roba da non credere.
E neanche un senso di colpa. Non ho vergogna a confessarlo: non mi sentivo, e ancor meno adesso, responsabile per quello che era successo. È successo, ma non per colpa mia. Non ero distratto, non ero inconsapevole di quello che stava succedendo. Guidavo veloce, è vero, e pioveva, ma avevo perfettamente il controllo della situazione. Io ho fatto quel che dovevo. La colpa è solo dei guanti che non hanno fatto presa. E anche di chi non mi ha insegnato che non si guida con i guanti. Ora l’ho capito, e non lo scorderò. Le tragedie a volte possono diventare degli ottimi insegnanti.
L’ho già detto: da allora niente macchina, niente moto. E anche niente più gare, niente più vita di prima. Soldi ne ho, quelli dell’eredità. Ho tenuto solo la casa più piccola, le altre le ho vendute. Ho di che sopravvivere, perché vivere è quello che m’interessa fare. All’inizio in molti mi si avvicinavano prudenti, mi guardavano intensamente, senza parole, ma io sapevo cosa cercavano, volevano capire se avessi voglia di ammazzarmi, di tirarmi fuori dai giochi. Allora sorridevo, sapevo farlo. Li tranquillizzavo, lo vedevo da come rispondevano al mio sorriso, rincuorati dal mio stato d’animo, come se quel sorriso non nascondesse una voragine di dolore che ormai è casa mia. Lì abito, a quel luogo appartengo. A loro però quel sorriso bastava. E mi lasciavano in pace.
E comunque confermo, non ho mai pensato al suicidio. Non avrebbe senso, almeno per me. Non voglio pontificare, al mondo esistono tante verità quante persone, tante maschere quanti esseri umani, ognuno se la gioca come vuole. Io ho deciso di andare avanti, con ciò che mi resta. Dalla mia vita ho già tolto molto, e ripeto, non per colpa mia. Ora voglio aggiungere. Mi basta un’emozione, un colore, a volte uno sguardo. Uno stupore, un brivido. È quello che, ogni giorno, vado a cercare.
Tante volte mi sono chiesto, ma tu prima eri felice? Prima dell’incidente dico. Non so rispondere. Forse sì, nel senso che vivevo una vita tranquilla, c’era chi badava a me, mamma soprattutto, papà è morto quando avevo quattordici anni, poco più di un bambino, e in ogni caso da quel che ricordo era spesso fuori casa. Mamma che badava al piccolo e che mi consentiva di fare la vita che volevo, la scuola prima, l’università poi, e sempre la ginnastica, gli allenamenti, le gare, dall’adolescenza in poi. Lo sport non mi ha mai stancato o annoiato. Mi piaceva l’odore del magnesio, l’immagine di quelle mani bianche impolverate a fare presa salda, salda come l’acciaio, salda come quella che avrei voluto avere il giorno dell’incidente, infatti mica mi allenavo con i guanti, ma dopo è facile, dopo si sa, è prima il difficile, il durante, che poi s’impara, ma a volte è troppo tardi.
Nelle palestre mi piacevano anche le voci che rimbalzavano distorte, ancor di più quando ci allenavamo sotto i palloni gonfiabili, dei palloni mi piaceva anche toccarne le pareti, di gomma solida così tirata che mi divertivo a immaginarla sgonfia, d’estate, chissà poi quanto diventa grande un pallone del genere quando si toglie l’aria, cosa fanno, lo piegano come una coperta? Non lo so, ma ormai non ha più importanza.
Quindi sì, ero felice, se felicità vuol dire navigare su un mare calmo. Ma in fondo il mare è calmo anche ora. Difficile che arrivi un’onda più alta che mi metta in difficoltà. Devo badare a me, solo a me. La mia attenzione quotidiana cammina lungo il perimetro del mio corpo, la gobba del naso, il mento appuntito, il torace largo, le braccia ancora forti, i piedi grandi. Io, nient’altro. Ho la fortuna di non dover dipendere, di non dover chiedere. Basto a me stesso. Questa, ritengo, è la più alta forma di libertà che io possa sperare di raggiungere.
Così salgo sui treni. Ogni giorno. Non quelli nuovi, quelli che vanno a duecento all’ora, che i finestrini purtroppo non te li fanno più aprire. Quelli vecchi vanno meglio, più lenti certo, ma almeno riesco a sentire ancora la velocità, la carezza del vento sulla faccia. Locali, regionali, va bene tutto. E non importa la destinazione, tanto prima o poi qualcuno che torna indietro lo trovo. Magari non subito, ma prima o poi il treno giusto passa. Sempre.
Salgo e non mi siedo mai. Cammino, lungo i corridoi. E guardo dentro agli scompartimenti, semmai trovassi uno sguardo che m’interessa. E appena il treno esce dalla stazione apro i finestrini, d’estate e d’inverno, caccio fuori la testa e aspetto le lacrime del vento, che arrivano da sole quando i treni non sono troppo lenti. Sennò le aiuto, strizzando un po’ gli occhi. Certe volte però mi accorgo che le lacrime possono uscire anche senza velocità, una volta sono arrivate ancor prima che il treno partisse. Capita così. Ma quando trovo un treno che fila via, lanciato come si deve, ecco, quando succede cominciano a tremarmi le mani e afferro tutto quello che trovo, di solito il montante del vetro abbassato, senza guanti certo, non li porto più, e lo stringo così forte da farmi male, da sentire il gelo fin dentro alle ossa, anche d’estate, ma almeno così non tremo. E così se uno dovesse guardarmi potrei sembrare solo un tipo un po’ strambo che s’affaccia dal finestrino con qualsiasi tempo e qualsiasi stagione, e magari si chiedono cosa mai vado a cercare là fuori, col vetro aperto, che certe volte entra pure freddo, e infatti quelli dello scompartimento alle mie spalle sembrano infastiditi, spesso chiudono anche la porta. Ma io non lo sento il freddo. A me piace. Il freddo fuori, sulla faccia, sulla pelle, mi scalda dentro. E poi i capelli volano, le lacrime scivolano, e sulla faccia mi si disegna un sorriso così, come da ragazzino, quando correvo con la moto.
E allora guardo ancora una volta questa targhetta, accanto al finestrino. It’s dangerous to lean out. Tutte cazzate. È vero il contrario, è pericoloso non sporgersi. È pericoloso restare sempre dentro ai confini, è pericoloso non avere il coraggio di fare un passo in più, che poi magari è davvero uno solo, ma bisogna farlo, bisogna, sennò non ha senso definirsi vivi. Non ha senso aspettare. Aspettare è un pericolo. Ragionare d’accordo, valutare certo, l’immobilità no. Chi resta immobile per paura si condanna per l’intera vita. Invece bisogna volare altissimi per ritrovarsi. E se non si hanno ali abbastanza forti, basta inventarsele. Ma è lassù che bisogna arrivare. Quel brivido che si prova a varcare il confine è la spina dorsale delle nostre vite, la benzina che tiene acceso il nostro motore. Altrimenti prima o poi si spegne. Restiamo vivi, ma in realtà non esistiamo più.
A me è rimasto poco. Ho una vita, una spalla che mi fa male quando cambia il tempo. Rincorro emozioni, vado a prendermi la velocità quando la trovo. Ho qualche difficoltà con le persone, questo sì. Ma sto bene da solo. Mi piace pensare. Mi piace usare poco o niente la voce. Solo l’indispensabile, anche qualcosa meno. Col pensiero invece parlo di continuo e dipingo storie. Col pensiero è come scrivere libri in riva al mare, poco dopo arriva un’onda e cancella tutto, la sabbia torna liscia e compatta, una pagina bianca, pronta per essere scritta di nuovo. È bello quando l’onda arriva e cancella. Non sento di aver perso qualcosa, ma di avere un’altra opportunità. Non è la fantasia che mi manca.
Così racconto. Per me il più delle volte, ma se dovessi incontrare qualcuno di simpatico non avrei problemi a usare la voce. Come con voi stasera.
Ora però scusatemi, sono un po’ stanco. Ho parlato più oggi che in tutto l’ultimo mese.
Alla prossima scendo.
È tardi, devo proprio tornare a casa.
Probabilmente mia madre mi sta aspettando.

Giornalista professionista, scrittore per hobby, una vita immersa nelle parole.
Sono nato nel ’62 a Roma, vivo a Padova, ma andrei ovunque per seguire i miei affetti. Non ho radici nei luoghi.
Per me scrivere, come ha detto una volta una bambina di quinta elementare dove ero andato a fare una “lezione” di giornalismo, è come respirare. Il rigore della cronaca per lavoro, la libertà dell’immaginazione per la costruzione delle mie storie. Mi piace raccontare. Mi piace trovare le parole giuste.
Ho pubblicato il romanzo Sette soli nel 2012 (Edizioni La Gru), ma dopo 3 anni di contratto ho scelto di non rinnovarlo, diventando editore di me stesso. Ho scritto una decina di racconti: uno di questi, “Le lacrime del vento”, è entrato in finale al Premio Bukowski 2018. Gli altri, pian piano, faranno la loro strada.