Degli occhi non saprei che dire
La seconda volta che vidi Valentina, in realtà, era soltanto la prima volta. E non posso dire di averla conosciuta davvero. Però, posso dire di averla incontrata, di averle parlato, o perlomeno di averci provato. Perché credo di averlo fatto, nonostante quello che pensa la gente.
Vi sembrerà tutto molto complicato. Forse lo è. Ma non ho più l’arroganza di voler capire ogni cosa. Mi accontento di sapere che accadono delle cose. Cose difficili da spiegare. E, allora, cerco solo di vivere ciò che mi è dato vivere, o di osservare ciò che posso solo guardare.
Come con Valentina. Dove non avrei potuto fare altro. Proverò a raccontarvi cosa accadde, e lascerò a voi la scelta di crederci oppure no.
La incontrai sulla linea 12.
Il vaporetto aveva attraversato il Canale di Mazzorbo, superato le case colorate della Fondamenta di Santa Caterina, e quelle isolate e quasi abbandonate dell’isola di Mazzorbetto, sull’altra sponda, con il vecchio forte austriaco, celato dalla vegetazione.
La giornata era calda, il sole accecante, e l’estate sembrava non voler finire. Stavo in piedi nella zona scoperta, fra le cabine passeggeri. Ero svogliato. Forse per l’afa, forse per la stanchezza. E c’era troppa luce. I riflessi sulla laguna mi infastidivano. Abbassai gli occhiali, che tenevo appoggiati sulla fronte. Le lenti polarizzate diedero vita alla magia. Il mondo a colori, come lo chiamavo. Saturato ogni dettaglio, incrementato ogni contrasto, gonfiata ogni profondità. Tutto balzava agli occhi, come se acquistasse spessore nell’attimo stesso in cui vi si posava lo sguardo. I gabbiani e i cormorani che si appoggiavano sulle bricole e si fermavano sul bordo dei canneti. Le cromature e i fasciami e le vele delle piccole imbarcazioni che transitavano vicino alla barena, lasciandosi dietro scie d’acqua argentate. Le nuvole zuccherose che riempivano il cielo, con il loro lento incedere, e le forme bizzarre, come quella, enorme, che sembrava la testa di un rinoceronte, adagiata su un fianco come per dormire. E, ancora, l’aereo sopra l’orizzonte, che planava verso il Marco Polo.
Alzai la testa. Vidi la tettoia in vetro che ci copriva, con le sue tante finestrelle. Sopra uno di quei rettangoli trasparenti c’era dell’acqua. Acqua morta, rimasta intrappolata. Una lente liquida che amplificava l’azzurro del cielo. E amplificava anche il corpo di una vespa, che chissà come c’era finita dentro e sembrava agitare ancora le zampe.
Non ricordavo che avesse piovuto nella notte. Non in terraferma almeno.
Poi arrivò lo scossone. Il battello attraccò all’imbarcadero. Eravamo arrivati a Torcello. Ci fu il solito trambusto di chi scendeva e chi saliva. Il marinaio liberò la corda che ci ancorava, e il vaporetto ripartì. Sentii il motore diesel accelerare, e il pavimento che entrava in vibrazione. E quando contemplai i nuovi venuti, c’era anche Valentina.
Naturalmente, non sapevo ancora che si chiamasse così. La fronte alta, i capelli lunghi, gli occhiali scuri a nascondere gli occhi. Era magra, e sembrava come impaurita. Ma era bella, di una bellezza fredda, che teneva a distanza. E, proprio per evitare il contatto con le persone che l’attorniavano, si avvicinò un po’ di più a me.
Poi tutto precipitò.
Ricordo un sobbalzo più intenso, come se un’onda più alta ci avesse colpito. Allungai il braccio per attaccarmi al supporto di ferro, e sentii la mano. Mi girai. Valentina, per non cadere, si era aggrappata a me.
Mi deve scusare, disse.
Si staccò subito, e si allontanò.
Stavo per dirle qualcosa, quando sentii gridare il comandante in cabina. Il battello questa volta si inclinò. Seguii gli sguardi allarmati delle persone sul ponte, e guardai un natante passare radente. Vidi lo scafo chiaro, le bandierine sulla prua e sulla poppa, i finestrini luccicanti di riflessi, e il conducente, come spiritato, con lo sguardo fisso.
Un attimo, e filò via.
Quando mi voltai di nuovo, Valentina non c’era.
La cercai tra la gente. Pensai che si fosse spostata per aggrapparsi a qualcosa. Ma non c’era. Scandagliai ogni volto e ogni sagoma su cui riuscii a posare gli occhi. Il gruppetto di asiatici vicino alla porta del bagno, i tedeschi con le macchine fotografiche, la rappresentante con la valigetta, e il signore anziano che si aiutava con il bastone. Anche i bambini a ridosso della murata, che con gli occhi seguivano ancora il motoscafo scellerato. Li controllai tutti. Controllai anche nelle cabine. Ma era come sparita. Come se non ci fosse mai stata.
E poi il tempo finì.
Il mondo si oscurò. Il vaporetto, il ponte e le persone accaldate che lo assiepavano, tutto quello che il sole incandescente illuminava appena lì fuori, scomparve ogni cosa. I suoni morirono. Gli odori si diradarono. Solo un sentore di mucillagine rimase sospeso più a lungo.
Mi svegliai.
Le tapparelle risuonavano colpite dalla pioggia. La perturbazione promessa dal servizio meteo era arrivata puntuale come una bolletta.
Guardai l’orologio. Era ancora presto per alzarsi. Ma non riuscii a riaddormentarmi. Ero rimasto su quel ponte, con addosso la sensazione di un’assenza. Ricordavo l’acqua morta sulla finestrella di vetro, e la vespa agonizzante; le gocce di sudore sui visi accaldati, come se una grande fiamma bruciasse ogni cosa. E un malessere, quasi fisico, come se avessi davvero respirato quell’aria malsana, con le zaffate che salivano a ondate dall’acqua. E poi la luce che se ne andava.
C’era qualcosa di sbagliato. Un dettaglio nascosto, intravisto e subito dimenticato. E l’impressione d’aver visto di più.
I giorni passavano, l’inquietudine rimaneva. Ricordavo Valentina, il suo viso triste, e gli occhiali che la nascondevano. Ma si assopì anche la sua nostalgia.
Poi, un giorno, per delle commissioni, mi trovai di nuovo sulla linea 12. Presi posto vicino alla zona dei bagagli, fuori dalle cabine. E mi lasciai cullare dal viaggio.
Nella giornata calda, osservavo la laguna placida, e la strada d’acqua segnata dalle bricole, dove avevano predisposto i collegamenti per istallare i lampioni. Rimanevano, però, soltanto i fili elettrici, contorti come mani scheletriche bruciate dal sole.
E poi San Giacomo in Palude, desolato e abbandonato convento, e Madonna del Monte, poco più oltre, con i residui della polveriera ottocentesca. Ruderi che galleggiavano a stento.
Le nuvole alte e maestose si muovevano al rallentatore, slittando sul fondo del cielo. E scorreva il battello, e le barche più lontane, e le onde lievi che increspavano la superficie dell’acqua. Pensai che mancasse un perno a tutto quello scorrere. Mi prese una vertigine, quasi una nausea. Distolsi lo sguardo.
Un rumore, come l’abbattersi di un maglio, mi fece voltare. Un gruppetto di asiatici stazionava vicino al bagno, e uno di loro doveva aver chiuso la porta scorrevole con troppa energia. Si erano voltati anche i tedeschi con le macchine fotografiche. Come la rappresentante un po’ più in là, e il signore anziano con il bastone.
Qualcosa mi sembrò familiare.
Abbassai gli occhiali, per attenuare i riflessi e il bagliore del sole. Il paesaggio acquistò colore contrasto e profondità.
Ricordai il sogno.
Mi guardai attorno e sembrò che ogni cosa fosse tornata al suo posto. Perché uno dei bambini, vicino alla murata, indicava il cielo. E lì, sopra l’orizzonte, tra le nuvole spumose, c’era la testa del rinoceronte, stesa sul fianco. Proprio come l’avevo sognata. Allora, mi era sembrato stanco, adagiatosi per riposare; ora, invece, pensai che fosse agonizzante.
Il pavimento del ponte vibrava più che mai, e le gambe quasi mi tremavano. Qualcosa che non poteva succedere sembrava accadere lo stesso.
Girai la testa, e sospeso in cielo, come disegnato da un bambino, silenzioso, un aereo stava planando verso il Marco Polo.
Alzai la testa. L’acqua morta tremolava sopra la finestrella, e nell’acqua una vespa agitava le zampe.
Il rinoceronte, l’aereo, l’acqua ferma.
Mancava solo una cosa. Cercai di ricordarmi la sequenza.
Un barchino bianco, con a bordo dei ragazzi aggrappati alla manopola del motore, passò veloce, impennando come imbizzarrito. Si alzava e scendeva a battere sull’acqua. E subito ricominciava quella corsa irregolare. L’onda più alta del sogno.
La scia ci raggiunse, e il vaporetto oscillò.
Mi aggrappai al ferro del portapacchi. E sentii la mano, la sentii stringermi il braccio. Come l’altra volta.
Mi voltai e lei era lì. Alta, magra. La fronte candida, i capelli lunghi e fini che si agitavano nella corrente, gli occhiali scuri. Portava un pullover chiaro e dei jeans. Era bella come nel sogno, di una bellezza algida, che poteva bruciare.
Allora non era stato reale. E adesso? Adesso era come dilatato.
Scusi, mi disse.
E fece un debole sorriso.
Si figuri, risposi. Prego, si aggrappi pure.
Mi spostai per darle più spazio. Lei si avvicinò, e pose la mano sinistra sul corrimano. Il movimento fece alzare il bordo del pullover e scoprì il polso sottile. E proprio lì, sopra la pelle chiara, c’era un braccialetto di plastica. Un braccialetto ospedaliero.
Fu un attimo. Come in un film, con la macchina da presa che si ferma a zoomare un particolare. L’angolazione era perfetta. Lessi: Valentina Nappi, 18 maggio 1968. E poi il codice fiscale, che si leggeva solo a tratti, quasi fosse stato abraso. E il codice a barre del presidio medico. Fu un attimo. Poi, l’oscillazione del battello la riportò più vicina e la manica ricoprì il braccialetto.
Pensai prima al nome. Valentina. Poi, al braccialetto. L’avevano appena dimessa? Ma si portavano a casa quei braccialetti? Domande inutili. E mi resi conto di camminare su un terreno nuovo. Quel dettaglio non c’era nel sogno.
La guardai con più attenzione. Cercavo gli occhi, ma le lenti scure li nascondevano. Forse ne intuivo lo sguardo nella trasparenza.
La curiosità mi portò a esagerare.
Piacere, Claudio, dissi, porgendole la mano.
Lei mi guardò. Ma un refolo d’aria le scompigliò i capelli, e una ciocca si allungò sulla faccia. Prima voltò il viso per allontanarli, ma non servì. Allora, avvicinò la mano e li scostò con le dita eleganti. Di nuovo il movimento scoprì il polso e portò alla luce il braccialetto.
Lo osservai come ipnotizzato.
Lei se ne accorse. Ritirò subito la mano. Allungò la manica del pullover. Fece qualche passo indietro.
Mi scusi, disse scuotendo la testa. E, se non ci fossero stati gli occhiali, avrei giurato che stesse per piangere.
Davvero, deve scusarmi, disse ancora e si allontanò.
Il senso d’attesa divenne intollerabile.
Percepii l’agitazione della gente sul ponte. Sentii imprecare il comandante del vaporetto, lo vidi agitare le braccia in cabina. Poi, tutti si voltarono a guardare. Il battello virò bruscamente, come per allontanarsi da qualcosa. E comparve il motoscafo. Riconobbi la bandierina bianca sulla prua, e quella di San Marco che sventolava dall’asta di poppa, i divanetti di pelle bianchi e vuoti, e i finestrini e le cromature che accese dai riflessi sembravano incandescenti. E vidi il conducente, in piedi, al timone, con i capelli gonfiati dalla velocità, e lo sguardo rigido, fisso, lo stesso sguardo di plastica che aveva nel sogno, così innaturale da sembrare sbagliato.
Il battello si inclinava e le persone gemevano cercando di non cadere. Come nel sogno, solo più cupo. Come se avessero spento un po’ il sole, e tolto un po’ d’aria, e diluito il colore. Aleggiava come incenso un presagio.
Sentii di nuovo imprecare il comandante, mentre il battello rimaneva inclinato. Il motoscafo sfilò radente. Come nel sogno.
Ma, allora, avevo percepito ancora qualcosa. E qualcosa avvenne, al limite del campo visivo. Come un otturatore che si apre e si chiude.
Mi voltai a cercare Valentina: stava sparendo oltre il bordo del battello. E sembrava un lasciarsi andare. La testa abbandonata, come spenta. Il corpo morto.
Poi, il tonfo nell’acqua.
Mi precipitai. Riuscii a vedere soltanto i piedi nudi che scomparivano, subito sommersi. La sagoma del corpo scendeva in profondità e scoloriva velocemente.
Ricordo le urla. Le mie. E l’agitazione che seguì. Gli sguardi delle persone che ascoltavano il mio farneticare. Si affacciavano oltre il bordo del battello. Ma non c’era più niente da vedere.
È caduta. È caduta!, continuavo a gridare.
Accorse il marinaio. Che è successo?, mi chiese.
E io a dirgli: Valentina.
Chi?
La donna che era qui. Gli afferrai le braccia. Si è buttata!
Abbassai gli occhi. Vicino alla fiancata c’erano le scarpe, delle ballerine nere, con sopra il braccialetto ospedaliero.
Non ricordo altro, soltanto brandelli sconnessi. Volti, parole. Spiegazioni infinite. Il tentativo sfibrante di far capire cos’era accaduto.
Perché nessun altro aveva visto.
Cercarono il corpo, naturalmente. Cercarono di recuperarlo. Non ci riuscirono. Non trovarono neppure lei. Perché non c’era nessuna Valentina.
Presero il bracciale, ma non riuscirono a stabilire alcuna corrispondenza. All’Ospedale Civile non avevano mai ricoverato una Valentina Nappi. Nessun medico, nessun infermiere, nessun amministrativo si ricordava di lei. Nell’archivio informatico non c’era.
Su quella striscia di plastica, a chiare lettere, c’era un nome, una data di nascita, e un codice fiscale danneggiato. Tutti dati che non portarono a nulla. Perché il braccialetto poteva venire da un altro ospedale, mi spiegarono. Non esisteva ancora una banca dati comune. E poi, ed era ciò che credevano, sembrava solo uno scherzo. Un gioco crudele.
Ma c’erano le scarpe. Quelle ballerine nere, numero trentotto. Abbandonate vicino alla murata, quasi in ordine. Interrogarono il marinaio anche su quello, e il comandante, e i passeggeri. Nessuno se le ricordava. Prima non c’erano e poi erano lì. Mi spiegarono che non era così strano ritrovare delle scarpe nei vaporetti. Le persone, mi dissero, perdevano le cose più strane.
E alla fine, su quel battello, l’unico a ricordarsi di Valentina ero io.
Non cercherò di convincervi. Ve l’ho detto, l’ansia di razionalizzare l’esistere non mi appartiene più. Credono che sia stata soltanto la mia fantasia, la mia fervida fantasia la definirono.
Conservo il braccialetto, però. Dopo gli esami e gli accertamenti fatti, mi hanno permesso di tenerlo. Ed è qui, sulla scrivania, vicino alla lampada. Ogni tanto lo prendo in mano, ci passo sopra le dita, cerco qualcosa di lei. Ormai, le scritte si stanno cancellando, e un giorno rimarranno solo delle macchie sfumate. Tutto quello che mi è rimasto di lei scomparirà. Il nome, la data di nascita, quel brandello di codice fiscale. Non importa. Avrò sempre il ricordo.
Ecco, la seconda volta in cui vidi Valentina, in realtà, era la prima volta. E, per la gente, neppure c’è stata.
Ma non mi interesso di quello che dicono. Io sono convinto di averla incontrata, di averla vista cadere giù dal battello, come se si fosse lasciata andare. E prima che la laguna le inghiottisse ci ho parlato, ho sentito la sua voce.
Mi addolora soltanto non averla aiutata, e mi resta il rammarico per non aver potuto guardarla negli occhi.

Antonio Varchetta nasce a Mestre nel 1970. Scopre la scrittura vincendo il Premio La Seriola, nel 2009, e partecipando a un corso di scrittura narrativa. In seguito, ottiene altri riconoscimenti, con il Premio Giovane Holden, a Lucca, e nell’ambito della Medicina Narrativa, al CRO di Aviano. Suoi racconti sono stati pubblicati in antologie per Terra Ferma Edizioni, Kellermann Editore, Giovane Holden Edizioni. Ha collaborato, come segreterio, ai corsi di narrazione Cucina di Storie, a Mestre, curati da Annalisa Bruni, Lucia de Michieli e Anna Toscano; e ai corsi de Il Portolano, a Treviso, tenuti da Bruna Graziani. Ha organizzato rassegne cinematografiche per Il Cineforum Studentesco Astori, di Mogliano Veneto.
Attualmente, scrive per Italian-directory.it, di Hdemo Network, dove pubblica racconti e cura la rubrica dedicata al cinema. Fa parte del Direttivo dell’Associazione Culturale Nina Vola che organizza a Treviso il Festival Letterario CartaCarbone.